Nosaj Thing

Nosaj Thing (born Jason Chung) è un giovane musicista di Los Angeles attivo nell’area hip hop, remix, etc.

Mi ha colpito questo video sul suo brano Eclipse/Blue per la connessione fra i due danzatori (uno reale, mentre l’altro sembra essere parte del video) e la proiezione (virtuale) alle loro spalle.

Un gioco di luci trasforma il personaggio reale in una silhouette monocromatica quasi virtuale che interagisce con una seconda silhouette la cui realtà non è chiara. Insieme generano e si fondono con le forme in evoluzione sullo schermo. Notevole.

Da quel che capisco i credit per il video dovrebbero andara a Daito Manabe, takcom, Satoru Higa, and MIKIKO with support from The Creators Project. Peraltro anche il brano non è così banale…

Grazie a Katja per la segnalazione.

UPDATE: le ballerine sono effettivamente due, una davanti e l’altra dietro allo schermo

Treatise by Cardew Ensemble

Cardew Ensemble è una formazione nata con lo scopo di rivisitare in chiave elettroacustica le composizioni aperte tipiche degli anni ’60/’70, in primis il Treatise di Cornelius Cardew di cui potete ascoltare qui le pagine da 1 a 14.

La formazione è:

  • Nicola Baroni (cello and Max/MSP)
  • Carlo Benzi (synth and Max/MSP)
  • Mauro Graziani (Max/MSP)
  • Massimiliano Messieri (toys percussion and Max/MSP)
  • Federico Mosconi (electric guitar and Max/MSP)
  • Michele Selva (alto saxophone)

Retromania

Sto leggendo Retromania, di Simon Reynolds (Isbn Edizioni, Milano, 2011, 506 pagg., € 26.90). Non l’ho ancora finito (sono circa a metà), quindi questa è una recensione parziale, comunque fin qui mi sembra un libro decisamente ben scritto e argomentato, ricco di fatti, quasi troppo e questo è il suo unico limite: avrebbe potuto risparmiarci un po’ di queste 433 (506 con bibliografia e indici) pagine. Però non mi lamento: avercene di critici con questa profondità di analisi e documentazione. Ottima anche la traduzione di Michele Piumini.

Qui Reynolds esamina la tendenza al remake che ha colpito la scena pop/rock a partire dal nuovo millennio, simboleggiata dall’apertura, nell’Aprile 2000, del Memphis Rock’n’Soul Museum presso lo Smithsonian Institution.

Questa faccenda, in effetti, è una delle cose che mi colpiscono maggiormente nella musica attuale, raramente in senso positivo, più spesso negativamente. Come recita l’introduzione,

un tempo il pop ribolliva di energia vitale … i duemila sembrano invece irrimediabilmente malati di passato …

Perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando esauriremo il passato a cui attingere? Riusciremo ad emanciparci dalla nostalgia e a produrre qualcosa di nuovo?

Ma mi rendo conto che il significato negativo che io attribuisco alla retromania può dipendere anche dal fatto che io ho vissuto quel passato e quell’energia vitale, perciò non riesco ad accettare facilmente i rifacimenti proposti dalla musica attuale che finiscono spesso per sembrarmi delle brutte copie prive della forza e del significato dell’originale.

Comunque, fra le domande che l’autore si pone, la prima e l’ultima mi sembrano le più stringenti. La seconda, a mio avviso, è inutile: il passato, infatti, non si esaurisce mai. Come le mode insegnano, c’è sempre qualcosa da rifare o qualche modo diverso di rifarlo.

Stiamo, infatti, assistendo ad una celebrazione del passato che interessa tutti i settori, nessuno escluso: dal più comune, quello dell’abbigliamento, fino all’arredamento, alla televisione, al cinema, a giocattoli e videogiochi, all’alimentazione, per arrivare al retro-porno (tipo il vintage hairy, il porno prima dell’avvento della depilazione totale).

Nel tentativo di dare una spiegazione, il testo di Reynolds si apre con una impressionante e un po’ angosciante retrologia: una lista di date e fatti che copre il decennio 2000/2009 e va dai musei celebrativi come il già citato Memphis Rock’n’Soul Museum o l’Experience Music Project di Paul Allen, passa per le reunion (più di 30, forse 40 in 10 anni: in molti casi una funerea parata di individui attempati e acciaccati, spesso ancora in grado di suonare bene, ma che si atteggiano squallidamente a ventenni), e arriva ai concerti delle tribute band e alle riedizioni/rifacimenti di dischi e perfino di avvenimenti storici (come l’attraversamento in massa di Abbey Road l’8 Agosto 2009, 40 anni dopo quello dei Beatles per la copertina dell’album omonimo).

Per quel che riguarda la musica pop, l’ipotesi centrale è che uno degli elementi scatenanti di questa tendenza sia l’accumulo reso possibile da internet. Sulla rete si mette ormai tutto e c’è posto per tutto. Fotografie, canzoni, video, spezzoni televisivi, libri, vecchie riviste, grafica e chi più ne ha, più ne metta. Con l’apparizione dei cellulari multifunzione, tutti girano con una videocamera, una macchina fotografica e un registratore. Documentare il presente e metterlo in rete è facilissimo, ma il presente diventa rapidamente passato. Inoltre, la gente, ormai, mette in internet non solo l’attualità, ma anche i propri ricordi e generalmente quello che ama o che reputa importante: cimeli sotto forma di immagini fisse, video e suono stanno saturando lo spazio disponibile in rete, spazio che, però, continua ad allargarsi grazie alla riduzione del costo delle memorie di massa.

La condivisione di tutto questo materiale, poi, è imposta da coloro che offrono lo spazio. Entità come You Tube guadagnano solo grazie alla pubblicità e quest’ultima è attirata solo dalla quantità dei contatti. Ne consegue che il materiale disponibile deve essere condiviso e deve essere molto (sia la qualità che i contenuti non hanno grande importanza; quello che conta è che generino contatti).

A questo punto, secondo Reynolds,

il puro e semplice volume del passato musicale accumulato ha cominciato ad esercitare una sorta di attrazione gravitazionale.
[…]
I musicisti divenuti maggiorenni in questo periodo sono cresciuti in un clima caratterizzato da un grado di accessibilità del passato travolgente e senza precedenti

Inoltre, aggiungo io, per ragioni anagrafiche, non hanno vissuto il passato e quindi ne sono affascinati.

Di conseguenza

l’esigenza di movimento, di arrivare da qualche parte, poteva essere soddisfatta altrettanto facilmente (anzi, più facilmente) volgendosi a questo immenso passato e non guardando avanti.

In effetti, un paragone fra la disponibilità attuale e quella mia o di Reynolds (io sono del ’54, lui del ’63) è improponibile. Ai nostri tempi, il passato spariva. Gli album andavano rapidamente fuori catalogo e se non si acquistavano nei primi anni erano facilmente perduti. Per di più, il file sharing dei tempi andati si limitava alle audio-cassette e l’accesso ai dischi dipendeva dalla disponibilità economica.

Oggi, nell’oceano di internet si può pescare quasi tutto al solo costo della connessione (peraltro necessaria anche per altre cose) ed è quindi normale andare ad ascoltarlo, così come è facile crogiolarvisi dentro. La situazione della creatività attuale è resa difficile proprio dal fatto che, a differenza di quanto avveniva prima di internet, il passato non scompare mai. Io, per esempio, avevo 12/13 anni quando ho iniziato ad ascoltare seriamente il rock e ho conosciuto prima i gruppi miei contemporanei (ex: Beatles, Stones e gli altri) e solo qualche anno dopo ho ascoltato quelle che erano le radici di queste band, cioè il blues e il rock’n roll. Attualmente, invece, tutto è contemporaneamente disponibile.

Nello stesso modo, io vedevo dei dischi e delle band diventare vecchi, mentre altri generi e band nascevano. Avevo, cioè, una percezione del tempo lineare e orientata da un passato verso un futuro. Attualmente, invece, il movimento è stato sostituito dall’accumulo: non si va da un passato, con delle cose che invecchiano e scompaiono, a un futuro che propone delle novità, ma si aggiungono altre cose che si stratificano in un immenso deposito che tende ad annullare il tempo e a produrre quello Reynolds chiama stallo temporale il cui effetto finale è di bloccare qualsiasi tendenza al progresso (inteso come semplice movimento, senza un giudizio di valore) e produrre un continuo rimescolamento di ciò che esiste o è esistito.

Music for 18 musicians

Una delle non molte composizioni di Steve Reich e di tutta la minimal music che mi piacciono veramente.

Per me, il problema del minimalismo è che si basa su una idea che non ha mai avuto un vero sviluppo. In altre parole, questa musica si basa essenzialmente sulla sovrapposizione di pattern che, nel tempo, possono

  1. cambiare melodicamente, per esempio sostituendo via via le note (Glass) o invertendo note e pause (Reich)
  2. cambiare ritmicamente, introducendo, ogni tanto, una mutazione nelle figurazioni
  3. cambiare timbricamente,  sostituendo gradualmente i gruppi strumentali che eseguono i vari pattern
  4. sfasarsi temporalmente accelerando o rallentando il metro (a volte usando metronomi diversi fin dall’inizio)

Non mi sembra ci siano altri espedienti e a mio avviso, il tutto diventa estremamente prevedibile. Ciò non toglie che, a volte, il risultato possa essere affascinante e coinvolgente, ma non si può continuare per una vita così.

Su Youtube ne trovate molte esecuzioni, fra cui quella dell’Ensemble intercontemporain

Stockhausen English Lectures

Le English Lectures tenute da Stockhausen nel 1972. Si tratta di una playlist composta da 18 parti (cliccare sul menu nell’angolo in alto a dx) e poi, qui sotto, un documentario della BBC del 2001.

Dal mio punto di vista, c’era in Stockhausen qualcosa di ammirevole e nello stesso tempo assurdo. La sua dedizione al proprio lavoro (dedizione che era richiesta a pari livello anche agli interpreti) pretendeva di essere assoluta (cit. dall’intervista non guardo la tv, non leggo i giornali… oppure …arriva a uno stato di non pensiero…), ma, proprio per questo, era disumana oppure religiosa (dipende dai punti di vista), di quel tipo di religiosità che conduce all’isolamento dal resto del mondo, quasi alla clausura e che, proprio per questo, a volte, appariva incredibilmente ingenua.

Eppure, forse anche per questo, la sua musica raggiunge livelli di novità e di comunicazione che raramente trovo nei brani di altri autori contemporanei. E non solo questo, ma anche un livello di complessità non nascosto, ma sensibile, che la rende quasi sempre interessante.

Sud

Il primo movimento di Sud di J.C. Risset, è un bell’esempio di composizione elettroacustica che sfrutta ed elabora alcuni elementi del paesaggio sonoro della Francia meridionale.

La composizione è del 1985. Qui abbiamo solo la prima sezione. Più sotto, le note di copertina. La rappresentazione analitica è stat creata con EAnalysis.

The first movement of Sud may be perceived as a sequence of soundscapes and sonic fields represented as the subsections shown in figure I below. Transitions between subsections are characterised by subtle transformations of character and juxtaposition of extrinsic identities, as discussed below. The various subsections cohere into sections that suggest a general construction plan for the movement.

The first section (0’00 – 2’49) presents the sonic subjects of the movement, indeed many of the subjects of the composition. It is dominated by mimetic discourse and the manipulation of environmental soundscapes. The transition between sections I and II is the only instance within Sud in which an abrupt interruption is perceived. This pause creates expectation regarding the continuation of the musical discourse. The previous development suggested a sequence of soundscapes clearly connected with extrinsic identities. The second section (2’49 – 5’44) then presents a sequence of sonic fields that suggest extrinsic identities only at the level of basic structures, being dominated by an aural discourse. The identification of relationships between Gestalten occurs in a much less direct way, inviting the listener to penetrate the abstract world devised by the composer with a different approach. The third section (5’44 – 9’45) marks a return to the manipulation of environmental soundscapes, being characterised by a balance between mimetic and aural discourses.

Cambiare modo

No, non è l’ennesimo appello per una nuova politica, ma la constatazione che nel mondo c’è qualcuno che si diverte a spostare le canzoni da maggiore a minore o viceversa.

In realtà, il fatto che il modo maggiore comunichi felicità, gioia e che il minore sia più adatto alla tristezza e alla malinconia è un po’ più di una credenza. Un ricercatore ha scoperto che l’intervallo di terza minore compare nella parlata degli attori quando vogliono comunicare tristezza (qui l’articolo su Scientific American), almeno nella cultura occidentale. Nella nostra musica, questa connotazione dei modi è in uso fin dal 17mo secolo.

Ora scopro che qualche buontempone impiega tempo e risorse per cambiare il modo delle canzoni producendo curiosi quanto, a mio avviso, discutibili risultati.

Ecco, per esempio, Hey Jude, spostata da maggiore a minore.

Notate che il farlo sarebbe semplice se il pezzo venisse rieseguito, ma questi lo fanno editando digitalmente il file originale e ri-intonando solo le note e gli accordi che vanno cambiati, la qual cosa non è così semplice.

Il principale autore di questo rifacimento è tale Oleg Berg, musicista ucraino, che ha varato il progetto Major versus minor.

Ancora più strana suona The House of Rising Sun

Vi riporto questa cosa come curiosità. Ovviamente non sono contrario. Ognuno è padrone di usare il suo tempo come vuole. Mi lascia solo un po’ perplesso il fatto che una cosa che facevamo per gioco quando eravamo al liceo venga proposta come un’idea interessante e soprattutto che venga messa in vendita. $10 per l’album e $1 per il singolo brano, come se fosse roba sua. Oltretutto, cambiare un brano di un autore senza il suo permesso e venderlo non è una cosa simpatica. Tecnicamente è anche un reato. Ora, a me del diritto d’autore interessa poco. I miei brani sono in CC, ma se qualcuno prende un mio pezzo cambiando qualcosa e lo vende, mi inca**o anch’io.

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Kenzo Electric Jungle

Mat Maitland per Kenzo. Pop raffinato. Gustoso.

Visibile in grandi dimensioni su Vimeo e su You Tube.

Art Direction: Mat Maitland
Direction: Smith & Read / Mat Maitland
Animation: Natalia Stuyk
Production: Alastair Coe at Big Active
Music: ‘Mädchen Amick’ by Buffalo Tide

Sul nome B.a.c.h.

Se c’è qualcuno a cui Dio deve qualcosa, è J. S. Bach
Emil Cioran

Si tratta di un film di Francesco Leprino che ricostruisce la vita e l’opera del vecchio Bach. Ecco la descrizione dell’autore:

Sul nome B.a.c.h. è un film che si svolge su più piani strettamente interrelati e intercalati: il piano dell’esecuzione musicale dell’Arte della Fuga con elaborazioni strumentali per diversi organici, il piano dell’esplorazione di tutti i luoghi bachiani, quello del racconto biografico, quello dell’analisi discorsiva dell’Arte della fuga raccontata a più voci fra i luoghi bachiani dagli stessi personaggi, quello delle interviste ai vari esperti sugli aspetti del fenomeno bachiano (biografico, numerico-pitagorico, logico-matematico, esoterico, spirituale, profano, umano…), quello di Bach stesso, che in livrea si aggira muto nei “suoi” luoghi e ci guarda, dal remoto passato e dal lontano futuro al tempo stesso (interpretato da Sandro Boccardi, emblematico personaggio che ha promosso la musica antica in Italia fondando l’ultra trentennale festival “Musica e Poesia a San Maurizio”) e a cui dà voce il più grande attore in lingua tedesca: Bruno Ganz. La voce guida è quella altrettanto celebre di Arnoldo Foà e Sonia Bergamasco, insieme ad altri valenti attori che “interpretano” i personaggi principali della vita di Bach: il figlio Carl Philip Emanuel, autore del necrologio, Forkel, primo biografo, Anna Magdalena, la devota consorte, i severi superiori… tutti personaggi che costituiscono i testimoni di ieri.

Testimoni di oggi sono invece i personaggi intervistati, fra i più autorevoli in campo bachiano: Enrico Baiano, eccellente clavicembalista, Alberto Basso, che ha scritto il monumentale Frau Musika, Hans Eberhard Dentler, musicista e studioso, che nel suo volume su l’Arte della fuga ne ha decodificato il livello pitagorico-numerico, Ton Koopman, massimo interprete e direttore specializzato nelle esecuzioni bachiane, Douglas Hofstadter, autore dell’originalissimo saggio Goedel, Escher e Bach e studioso di intelligenza artificiale, Piergiorgio Odifreddi, logico matematico che ha approfondito le relazioni con il linguaggio musicale, Quirino Principe, autorevole musicologo e germanista particolarmente sensibile agli aspetti esoterico-cabalistici, Don Luigi Garbini, responsabile per la musica della Curia di Milano, che ha scritto una pregevole Introduzione alla musica sacra, Benedetto Scimemi, musico-matematico che con le sue lezioni-concerto ha divulgato le complessità delle fughe bachiane, Matteo Messori, clavicembalista e studioso di Bach, che ha inciso l’Arte della fuga al clavicembalo, Luca Cori, compositore e studioso che ha approfondito le relazioni strutturali e simboliche dell’Arte della fuga, Salvatore Natoli, filosofo da sempre interessato alle relazioni fra filosofia e musica. Tutti nomi riuniti in un grande convegno internazionale virtuale che fa il punto sulla figura di Johann Sebastian Bach.
Le elaborazioni strumentali, ad opera di due autorevoli compositori (Ruggero Laganà e Alessandro Solbiati), per quanto si mantengano fedeli alla scrittura bachiana (non aggiungendo né togliendo alcuna nota), sono volta a volta traduzioni ad hoc per il particolare organico, con un’opportuna assegnazione e circolazione delle voci, che ne mette in luce relazioni nascoste e virtuali, prendendo ad esempio la strumentazione del Ricercare a sei da “L’offerta musicale” di Anton Webern.
Infine gli interpreti, oltre 50 musicisti che costituiscono un insieme unico di grandi solisti riuniti appositamente per l’esecuzione di un’opera.

Puntualizzo che io non ho visto il film. Mi sono imbattuto nei vari frammenti posti su You Tube. Alcuni mi piacciono, altri meno. Nell’insieme, però, mi sembra un lavoro abbastanza interessante da segnalarlo.

A questo link trovate la playlist su You Tube.

Intanto, eccovi il primo capitolo, con il primo Contrappunto dell’Arte della fuga eseguito con la glass-harmonica.

La più antica canzone del mondo… cantata!

Con riferimento a questo post del 2006 (La più antica canzone del mondo), un attento lettore mi ha fatto notare come su You Tube, ne esistesse anche una versione interpretata. Ovviamente moderna, fatta da qualcuno che, basandosi sulla trascrizione di quella pagina, l’ha eseguita.

Così possiamo avere un’idea più precisa di come una persona del nostro secolo la può cantare con la nostra prassi esecutiva e il nostro sistema temperato. Naturalmente questo ci dice ben poco su come suonasse in Mesopotamia nel 1400 A.C. perché la loro prassi esecutiva e il loro rapporto con la notazione ci sono del tutto sconosciuti.

Per chiarire, molte partiture che risalgono anche solo al barocco (1600 d.C., cioè 400 anni fa) ci appaiono costituite da una semplice sequenza di note, che, in esecuzione diventa quasi irriconoscibile perché infarcita di abbellimenti e note di passaggio che non venivano notate in quanto facevano parte della prassi esecutiva dell’epoca.

Altro esempio più pop: provate a trascrivere un solo di un chitarrista rock senza il bending (le corde tirate), le pennate, gli abbellimenti della mano sinistra e i leggeri ritardi e anticipi e verrà fuori tutt’altra cosa.