Alan Lomax’s Archive Online

Alan Lomax

Alan Lomax (1915 – 2002), ethnomusicologist, anthropologist and record producer, has collected sound materials from almost all over the world, from Spain to Great Britain, South America and Africa.

Now all of this material is online here.

Site description:

The Sound Recordings catalog comprises over 17,400 digital audio files, beginning with Lomax’s first recordings onto (newly invented) tape in 1946 and tracing his career into the 1990s. In addition to a wide spectrum of musical performances from around the world, it includes stories, jokes, sermons, personal narratives, interviews conducted by Lomax and his associates, and unique ambient artifacts captured in transit from radio broadcasts, sometimes inadvertently, when Alan left the tape machine running. Not a single piece of recorded sound in Lomax’s audio archive has been omitted: meaning that microphone checks, partial performances, and false starts are also included.

This material from Alan Lomax’s independent archive, begun in 1946, which has been digitized and preserved by the Association for Cultural Equity, is distinct from the thousands of earlier recordings on acetate and aluminum discs he made from 1933 to 1942 under the auspices of the Library of Congress. This earlier collection — which includes the famous Jelly Roll Morton, Woody Guthrie, Lead Belly, and Muddy Waters sessions, as well as Lomax’s prodigious collections made in Haiti and Eastern Kentucky (1937) — is the provenance of the American Folklife Center at the Library. Attempts are being made, however, to digitize some of this rarer material, such as the Haitian recordings, and to make it available in the Sound Recordings catalog. Please check in periodically for updates.

I tempi sono cambiati

Bologna. Il 23 giugno del 1643, su richiesta dei professori e studenti dell’Università fu avanzata al Comune una perentoria protesta affinché fosse fatto divieto al transito per i carri attorno all’Archiginnasio per consentire agli studenti di studiare nel dovuto silenzio. L’istanza fu accolta.
[Tratto da Sounday Times, Il rumore e la città – considerazioni sul convegno la città nel rumore il rumore nella città]

Questo non per fare un elogio dei bei tempi andati, ma solo per sorridere un po’ 🙂 . In fondo parliamo di quasi 400 anni fa.

The Berlin Wall of Sound

SoundCloud ha pubblicato un post commemorativo per il 25mo della caduta del muro di Berlino.

Dal punto di vista musicale non è particolarmente significativo (è un collage di suoni e citazioni), ma probabilmente non era questo lo scopo. Il post, invece ha alcuni elementi interessanti sotto il profilo formale. Innanzitutto la durata: 7 minuti e 32 secondi è il tempo impiegato dal suono per percorrere i 155 km della lunghezza del muro. Poi i commenti, che sono 107, ciascuno con il nome di una persona morta nel tentativo di oltrepassare il muro (dovrebbero essere 120, forse qualcuno è collettivo).

 Marking the 25th anniversary of the fall of the Berlin Wall.

The Berlin Wall of Sound is an acoustic reconstruction of the Berlin Wall.

Its duration of 7:32 minutes reflects the time sound needs to travel the 155 kilometres length of the Berlin Wall. Its sound wave’s shape mirrors the wall of concrete and its watchtowers. There are no comments – the tags depict the victims and mark where they were killed.

The Wall of Sound is not easy to bear. But 27 years locked behind the concrete Berlin Wall were unbearable.

Back in 1989, SoundCloud’s headquarters would have been part of the Death Zone next to the Berlin Wall. We dedicate the Wall of Sound to the 120 women, men and children, who lost their lives in their attempt to live in freedom. We will not forget.

Major original quotes used:

Walter Ulbricht (former leader of the GDR and responsible for the construction) saying a few days before the construction started: „Nobody has the intention to raise a wall“

Heinz Hoffmann (former GDR secretary of defense): „To those, who don’t respect our border – they will feel the bullet.“

Erich Honecker (longtime and most powerful leader of the GDR) celebrating 40 Years of the GDR in 1989: „The German Democratic Republic will exist another 40 years and beyond.“

Alla fine, comunque, devo dire che, se da un lato un muro che cade fa sempre piacere, non concordo con la retorica semplicistica che circonda queste commemorazioni, secondo la quale noi abbiamo la libertà mentre loro erano un regime oppressivo.

La pagina originale è qui.

Per sempre cool

Il 21 Marzo 1976, dopo un concerto alla Community War Memorial arena in Rochester, New York, quattro detectives e un investigatore della polizia locale piombarono nella suite dell’Americana Rochester Hotel dove alloggiava David Bowie, sequestrando 182 grammi di marijuana e arrestando 4 persone: lo stesso Bowie, Iggy Pop, un bodyguard, tale Dwain Voughns e una ragazza di Rochester, Chiwah Soo.

I quattro passarono la notte in cella e furono rilasciati mattino seguente dietro cauzione di $ 2000 cadauno. Bowie e Iggy Pop vennero registrati con i loro veri nomi: rispettivamente David Jones e James Osterberg, Jr. Tre giorni dopo, David Bowie dovette presentarsi per il processo, immediato e veloce come è tipico negli USA, almeno per questo tipo di reati e in quell’occasione venne scattata la seguente foto segnaletica che fu ritrovata molti anni più tardi da un impiegato di una casa d’asta, frugando fra i mobili di un ufficiale di polizia in pensione. La foto fu poi venduta su Ebay per $ 2700.

È incredibile e quasi inumano come Bowie riesca ad apparire perfetto anche in una foto segnaletica come questa. Se non avete mai avuto il piacere, sappiate che in America, di solito, vengono prese con vetuste polaroid e due fari sparati in faccia mentre tu devi reggere il cartello con il numero e non hai ben chiaro come andrà a finire.

Devo la storia a Open Culture

Retromania

Sto leggendo Retromania, di Simon Reynolds (Isbn Edizioni, Milano, 2011, 506 pagg., € 26.90). Non l’ho ancora finito (sono circa a metà), quindi questa è una recensione parziale, comunque fin qui mi sembra un libro decisamente ben scritto e argomentato, ricco di fatti, quasi troppo e questo è il suo unico limite: avrebbe potuto risparmiarci un po’ di queste 433 (506 con bibliografia e indici) pagine. Però non mi lamento: avercene di critici con questa profondità di analisi e documentazione. Ottima anche la traduzione di Michele Piumini.

Qui Reynolds esamina la tendenza al remake che ha colpito la scena pop/rock a partire dal nuovo millennio, simboleggiata dall’apertura, nell’Aprile 2000, del Memphis Rock’n’Soul Museum presso lo Smithsonian Institution.

Questa faccenda, in effetti, è una delle cose che mi colpiscono maggiormente nella musica attuale, raramente in senso positivo, più spesso negativamente. Come recita l’introduzione,

un tempo il pop ribolliva di energia vitale … i duemila sembrano invece irrimediabilmente malati di passato …

Perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando esauriremo il passato a cui attingere? Riusciremo ad emanciparci dalla nostalgia e a produrre qualcosa di nuovo?

Ma mi rendo conto che il significato negativo che io attribuisco alla retromania può dipendere anche dal fatto che io ho vissuto quel passato e quell’energia vitale, perciò non riesco ad accettare facilmente i rifacimenti proposti dalla musica attuale che finiscono spesso per sembrarmi delle brutte copie prive della forza e del significato dell’originale.

Comunque, fra le domande che l’autore si pone, la prima e l’ultima mi sembrano le più stringenti. La seconda, a mio avviso, è inutile: il passato, infatti, non si esaurisce mai. Come le mode insegnano, c’è sempre qualcosa da rifare o qualche modo diverso di rifarlo.

Stiamo, infatti, assistendo ad una celebrazione del passato che interessa tutti i settori, nessuno escluso: dal più comune, quello dell’abbigliamento, fino all’arredamento, alla televisione, al cinema, a giocattoli e videogiochi, all’alimentazione, per arrivare al retro-porno (tipo il vintage hairy, il porno prima dell’avvento della depilazione totale).

Nel tentativo di dare una spiegazione, il testo di Reynolds si apre con una impressionante e un po’ angosciante retrologia: una lista di date e fatti che copre il decennio 2000/2009 e va dai musei celebrativi come il già citato Memphis Rock’n’Soul Museum o l’Experience Music Project di Paul Allen, passa per le reunion (più di 30, forse 40 in 10 anni: in molti casi una funerea parata di individui attempati e acciaccati, spesso ancora in grado di suonare bene, ma che si atteggiano squallidamente a ventenni), e arriva ai concerti delle tribute band e alle riedizioni/rifacimenti di dischi e perfino di avvenimenti storici (come l’attraversamento in massa di Abbey Road l’8 Agosto 2009, 40 anni dopo quello dei Beatles per la copertina dell’album omonimo).

Per quel che riguarda la musica pop, l’ipotesi centrale è che uno degli elementi scatenanti di questa tendenza sia l’accumulo reso possibile da internet. Sulla rete si mette ormai tutto e c’è posto per tutto. Fotografie, canzoni, video, spezzoni televisivi, libri, vecchie riviste, grafica e chi più ne ha, più ne metta. Con l’apparizione dei cellulari multifunzione, tutti girano con una videocamera, una macchina fotografica e un registratore. Documentare il presente e metterlo in rete è facilissimo, ma il presente diventa rapidamente passato. Inoltre, la gente, ormai, mette in internet non solo l’attualità, ma anche i propri ricordi e generalmente quello che ama o che reputa importante: cimeli sotto forma di immagini fisse, video e suono stanno saturando lo spazio disponibile in rete, spazio che, però, continua ad allargarsi grazie alla riduzione del costo delle memorie di massa.

La condivisione di tutto questo materiale, poi, è imposta da coloro che offrono lo spazio. Entità come You Tube guadagnano solo grazie alla pubblicità e quest’ultima è attirata solo dalla quantità dei contatti. Ne consegue che il materiale disponibile deve essere condiviso e deve essere molto (sia la qualità che i contenuti non hanno grande importanza; quello che conta è che generino contatti).

A questo punto, secondo Reynolds,

il puro e semplice volume del passato musicale accumulato ha cominciato ad esercitare una sorta di attrazione gravitazionale.
[…]
I musicisti divenuti maggiorenni in questo periodo sono cresciuti in un clima caratterizzato da un grado di accessibilità del passato travolgente e senza precedenti

Inoltre, aggiungo io, per ragioni anagrafiche, non hanno vissuto il passato e quindi ne sono affascinati.

Di conseguenza

l’esigenza di movimento, di arrivare da qualche parte, poteva essere soddisfatta altrettanto facilmente (anzi, più facilmente) volgendosi a questo immenso passato e non guardando avanti.

In effetti, un paragone fra la disponibilità attuale e quella mia o di Reynolds (io sono del ’54, lui del ’63) è improponibile. Ai nostri tempi, il passato spariva. Gli album andavano rapidamente fuori catalogo e se non si acquistavano nei primi anni erano facilmente perduti. Per di più, il file sharing dei tempi andati si limitava alle audio-cassette e l’accesso ai dischi dipendeva dalla disponibilità economica.

Oggi, nell’oceano di internet si può pescare quasi tutto al solo costo della connessione (peraltro necessaria anche per altre cose) ed è quindi normale andare ad ascoltarlo, così come è facile crogiolarvisi dentro. La situazione della creatività attuale è resa difficile proprio dal fatto che, a differenza di quanto avveniva prima di internet, il passato non scompare mai. Io, per esempio, avevo 12/13 anni quando ho iniziato ad ascoltare seriamente il rock e ho conosciuto prima i gruppi miei contemporanei (ex: Beatles, Stones e gli altri) e solo qualche anno dopo ho ascoltato quelle che erano le radici di queste band, cioè il blues e il rock’n roll. Attualmente, invece, tutto è contemporaneamente disponibile.

Nello stesso modo, io vedevo dei dischi e delle band diventare vecchi, mentre altri generi e band nascevano. Avevo, cioè, una percezione del tempo lineare e orientata da un passato verso un futuro. Attualmente, invece, il movimento è stato sostituito dall’accumulo: non si va da un passato, con delle cose che invecchiano e scompaiono, a un futuro che propone delle novità, ma si aggiungono altre cose che si stratificano in un immenso deposito che tende ad annullare il tempo e a produrre quello Reynolds chiama stallo temporale il cui effetto finale è di bloccare qualsiasi tendenza al progresso (inteso come semplice movimento, senza un giudizio di valore) e produrre un continuo rimescolamento di ciò che esiste o è esistito.

La più antica canzone del mondo… cantata!

Con riferimento a questo post del 2006 (La più antica canzone del mondo), un attento lettore mi ha fatto notare come su You Tube, ne esistesse anche una versione interpretata. Ovviamente moderna, fatta da qualcuno che, basandosi sulla trascrizione di quella pagina, l’ha eseguita.

Così possiamo avere un’idea più precisa di come una persona del nostro secolo la può cantare con la nostra prassi esecutiva e il nostro sistema temperato. Naturalmente questo ci dice ben poco su come suonasse in Mesopotamia nel 1400 A.C. perché la loro prassi esecutiva e il loro rapporto con la notazione ci sono del tutto sconosciuti.

Per chiarire, molte partiture che risalgono anche solo al barocco (1600 d.C., cioè 400 anni fa) ci appaiono costituite da una semplice sequenza di note, che, in esecuzione diventa quasi irriconoscibile perché infarcita di abbellimenti e note di passaggio che non venivano notate in quanto facevano parte della prassi esecutiva dell’epoca.

Altro esempio più pop: provate a trascrivere un solo di un chitarrista rock senza il bending (le corde tirate), le pennate, gli abbellimenti della mano sinistra e i leggeri ritardi e anticipi e verrà fuori tutt’altra cosa.

Max Mathews & John Chowning

In questa lunga conversazione con Curtis Roads, compositore e musicologo, Max Mathews & John Chowning ripercorrono varie tappe della storia della Computer Music.

A partire dagli anni ’50, Max Mathews ha creato, per primo, una serie di software che hanno permesso all’elaboratore di produrre e controllare il suono: si tratta della serie MUSIC I, II, III … fino al MUSIC V, largamente utilizzato, fra gli altri da Jean Claude Risset per sintetizzare alcuni famosi brani degli anni ’70, ma soprattutto per fare ricerca e rendere palesi le possibilità offerte dall’audio digitale.

John Chowning, percussionista, compositore e ricercatore, è invece noto come l’inventore della modulazione di frequenza (FM) per la sintesi del suono, tecnica sviluppata negli anni ’70 e poi ceduta a Yamaha che l’applicò in una lunga serie di sintetizzatori commerciali fra cui il DX7 (1983) che resta tuttora il synth più venduto nella storia.

Il video include anche una performance della pianista Chryssie Nanou che esegue Duet for One Pianist di J. C. Risset, in cui il pianista suona un pianoforte a coda Yamaha dotato di MIDI controller e duetta con un computer che “ascolta” l’esecuzione e a sua volta invia comandi MIDI allo stesso strumento i cui tasti iniziano ad abbassarsi da soli in un 4 mani con fantasma.

Il primo sito web

Se, per curiosità, volete dare un’occhiata al primo sito web mai realizzato cliccate qui.

Niente di pirotecnico. Si tratta di una serie di pagine di solo testo che, tuttavia, esibiscono una cosa che oggi, a 33 anni di distanza, è normale, ma, per l’epoca, era una grande novità e cioè il collegamento ipertestuale.

Il 6 Agosto 1991 Tim Berners-Lee e Robert Cailliau del CERN misero in linea questo sito che descriveva i fondamenti del progetto WWW, nato, in realtà, “to allow high energy physicists to share data, news, and documentation.”

Il sito era raggiungibile all’indirizzo http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.html.

Quello che si vede oggi in linea è uno snapshot del sito presa il 3 Novembre 1992.

Steve Jobs by Walter Isaacson

Steve_Jobs_by_Walter_IsaacsonSe a qualcuno piacciono la tecnologia e le biografie, quella di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson è un’ottima lettura. L’ho trovata in un supermarket e mi sono deciso a comprarla perché, leggendo le note di copertina, mi è sembrata abbastanza obiettiva, cioè anche critica e non solo osannante (non è che non ami Jobs; quello che non mi piace è l’atteggiamento di adorazione acritica che molti manifestano nei suoi confronti).

Walter Isaacson è un ex caporedattore di Time, CEO di CNN, oggi direttore dell’Aspen Institute. Ha scritto biografie di Kissinger, Benjamin Franklin ed Einstein. È una persona con le spalle abbastanza larghe da non farsi condizionare da chicchessia e va a merito di Jobs l’averlo invitato a scrivere la sua biografia autorizzata senza interferire nella stesura.

Il libro si legge facilmente ed è privo di strafalcioni tecnologici significativi.

Isaacson tratteggia senza sconti la personalità complessa di Jobs: un genio per quanto riguarda la definizione degli aspetti estetico/funzionali dei prodotti Apple e sufficientemente carismatico da spingere i suoi collaboratori a realizzare cose fino a quel momento ritenute impossibili, ma anche un egocentrico che divideva il mondo soltanto in due categorie, fantastico e merda, spesso brutale con chi gli stava intorno, capace anche di appropriarsi delle idee altrui e riproporle come proprie.

La sua ricerca estrema e quasi furiosa della semplicità sia nel design che nella funzionalità dell’oggetto, lo avvicina al Bauhaus, con la differenza che, per Jobs, il detto “form follows function” si rovescia nel suo esatto opposto. Spesso, infatti, alcune caratteristiche funzionali dei sistemi Apple sono state determinate dall’estetica scelta da Jobs per qualche dispositivo. In tal modo si rovescia il normale processo di progettazione. Di solito, infatti, prima vengono gli ingegneri che decidono quali componenti devono far parte della macchina e poi arrivano i designer che hanno il compito di rinchiuderli in un involucro accattivante (e spesso, nel caso del computer, si limitano a un involucro qualsiasi).

L’approccio di Jobs, invece, ha posto ai progettisti delle sfide che li hanno costretti a innovare. In genere, non si ha la percezione di quanto sia difficile cambiare la forma di un computer. Per esempio, il solo fatto di volere gli spigoli molto arrotondati provoca un bel problema di progettazione perché i produttori di schede e chip lavorano solo con elementi rettangolari. In teoria un chip rotondo si potrebbe fare, a patto, però, di cambiare l’intera catena di produzione, dal software che sistema i collegamenti fino ai robot che saldano i chip sulla piastra. In pratica è impossibile.

Di conseguenza, l’arrotondamento degli involucri con il taglio degli angoli produce spazio sprecato, a meno di inventare una disposizione diversa degli elementi all’interno dell’involucro, cosa che risulta più semplice se si usano elementi più piccoli, che, però, hanno un costo maggiore, il che spiega, in parte, il prezzo eccessivo rispetto alle prestazioni delle macchine Apple.

Gli effetti di questo modo di procedere sono risultati a volte decisamente innovativi, ma, in altre occasioni, si sono rivelati tali da compromettere alcune funzionalità.

Un esempio del primo tipo è lo sfondo bianco dell’interfaccia del Macintosh, conseguenza del fatto che Jobs voleva che fosse WYSIWYG: what you see is what you get (quello che vedi è quello che ottieni), quindi, se il documento in stampa sarebbe risultato nero su bianco, anche sullo schermo doveva essere così. Questa idea aveva fatto imbestialire non poco i tecnici perché il tradizionale sfondo nero (a fosfori spenti) era più semplice da progettare ed evitava che il tremolio dei fosfori fosse visibile. Lo sfondo bianco, invece, costringeva a ricorrere a monitor di qualità superiore, più costosi. Oggi tutti siamo abituati a questa situazione ed anche i display hanno fatto un salto di qualità non da poco.

Un esempio del secondo caso è il maledetto lettore CD dell’iMac. Jobs si arrabbiò moltissimo quando vide che il progettista aveva inserito nella macchina un lettore a cassettino invece che uno a fessura come era suo desiderio e gli impose di cambiarlo. Il punto è che a quell’epoca, i CD player non erano ancora in grado di masterizzare, ma solo di leggere. Il progettista, però, sapeva che a breve sarebbero stati disponibili anche i primi masterizzatori e che, per alcuni anni, sarebbero stati prodotti solo in versione a cassettino e avvisò Jobs che non volle scostarsi dalla sua idea. Per questa ragione gli acquirenti dell’iMac non hanno potuto beneficiare di un salto tecnologico e per vari anni sono stati costretti ad acquistare un masterizzatore a parte, mentre tutte le altre macchine nascevano dotate di masterizzatore di serie.

Un altro esempio molto più recente è l’antenna-gate dell’iPhone 4. Sebbene la volontà ferrea di Jobs fosse in grado di spingere i tecnici a fare miracoli, non c’è alcuna possibilità di contrastare il fatto che il metallo non è un materiale ideale da piazzare vicino ad una antenna: a dispetto dei desideri di Jobs e del suo designer di fiducia, le onde elettromagnetiche si ostinano a fluire sul metallo piuttosto che attraverso di esso con la conseguenza che un involucro metallico attorno a un telefono scherma sia la ricezione che la trasmissione (è la cosiddetta gabbia di Faraday). In origine, l’iPhone avrebbe dovuto avere una corona di plastica per permettere al segnale di fluire, ma la visione estetica di Jobs richiedeva una corona metallica. I tecnici fecero l’impossibile per utilizzare il metallo come estensione dell’antenna creando una discontinuità nella corona di acciaio che circondava l’apparecchio, ma come risultò chiaro da subito, se un dito sudato interrompeva tale fessura, la linea crollava.

È giusto rilevare, però, che i successi del metodo Jobs sono stati di gran lunga maggiori rispetto agli insuccessi e che la sua capacità innovativa ha realmente cambiato il modo in cui la massa percepisce la tecnologia. Dico “la massa” perché le creazioni Apple sono rivolte principalmente a coloro che utilizzano i sistemi digitali per l’ordinaria amministrazione, non a coloro che fanno un uso spinto della tecnologia. Prova ne è il fatto che le macchine high-end disegnate da Jobs sia in Apple che fuori, non hanno mai avuto grande successo. Non l’ha avuto il Lisa, non l’ha avuto il NeXT e non l’ha avuto il Power Mac G4 Cube che, nonostante sia finito esposto al Museum of Modern Art di New York, non ha impressionato i professionisti, poco disposti a spendere il doppio del normale per avere una scultura sulla loro scrivania. La presenza massiccia di Apple in alcuni centri di ricerca, come, nel mio campo, l’IRCAM, dipende più che altro da oculate politiche di vendita e sponsorizzazione che altro (leggi: sconti e regali).

Ma il problema maggiore di Apple, quello che ne ha frenato la diffusione fra gli addetti ai lavori, in realtà non è il prezzo, ma l’estrema chiusura dei loro sistemi. Nonostante la pubblicità tenti sempre di accreditare un’immagine creativa, i sistemi di Jobs sono sempre stati più diretti alla fruizione di contenuti che alla loro creazione e per volontà espressa dell’azienda, non esiste una pluralità di fornitori, il che significa che, sia che si abbia bisogno di un particolare componente hardware, di una certa applicazione o solo di una riparazione, bisogna sempre rivolgersi a una e una sola azienda e accettare le sue condizioni. A partire dal primo Mac, questa è stata la politica aziendale propugnata da Jobs. Quando in Apple si sono accorti che erano nati dei servizi di riparazione dell’iPhone gestiti da terze parti, l’azienda ha persino modificato le viti per impedire che qualcun altro fosse in grado di aprirlo.

Entrare in Apple, in pratica, significa consegnare la propria attività e i propri dati a una singola azienda senza potersi rivolgere a qualcun altro nel caso di disaccordi con la politica aziendale. È un po’ come acquistare una bellissima automobile di marca ZZZ (che proprio per questo costa il doppio di un auto normale) e scoprire, però, che gli unici che possono ripararla sono i centri ZZZ (che la tengono via 20 giorni e ti fanno pagare un occhio), che puoi fare benzina solo nei distributori approvati da ZZZ e che rende il massimo solo sulle strade consigliate da ZZZ.

Detto così, sembra solo un fatto economico, ma non lo è. È una di quelle cose che riguarda la libertà di tutti, anche se pochi ne sono toccati direttamente. Il fatto è che, sul mio computer, voglio mettere il sistema che voglio, farci girare i programmi che voglio e anche scriverne qualcuno, visto che so come fare, e magari venderlo o regalarlo e questo, in Apple, non è semplicemente possibile.

 

Profetico

Nell’autunno del 1888 George Gouraud fece, a Londra, una serie di dimostrazioni della nuova invenzione di Edison: il fonografo, capace di registrare il suono su cilindri di paraffina. Dopo le demo, Gouraud registrava le reazioni dei presenti su cilindri da inviare ad Edison.

Uno dei presenti era il compositore Arthur Sullivan (1842-1900). Nel suo messaggio disse, fra l’altro:

For myself, I can only say that I am astonished and somewhat terrified at the results of this evening’s experiment — astonished at the wonderful power you have developed, and terrified at the thought that so much hideous and bad music may be put on record forever.

Trad. mia
Per quel che mi riguarda, posso solo dire di essere sbalordito, ma anche un po’ spaventato dai risultati dell’esperimento di ieri sera — sbalordito dal fantastico potere che avete sviluppato e spaventato al pensiero di quanta orrenda e cattiva musica potrà essere registrata per sempre.

Fonte: wikipedia