Il gradino di Hillary

Esistono solo tre veri sport: l’alpinismo, la corrida e l’automobilismo; tutto il resto è soltanto un gioco.
[Ernest Hemingway]

Seguendo la via di sud-est, nella parte finale, la vetta dell’Everest si raggiunge camminando su questa cresta, dal colle sud, passando per il “Balcone” (una piccola piattaforma a 8400 m. con vista a sud e ad est) e la cima sud (un ripiano grande come un tavolo a 8750 m) fino alla sommità (8848 m).

L’ultima difficoltà, a meno di 100 m. dalla cima, è costituita da un risalto roccioso alto 12 m. Una banalità a una quota “umana” (almeno per uno scalatore; sono sempre 12 m.), ma un ostacolo quasi insuperabile a 8760 m., dopo una lunga ascesa e con l’ossigeno che arriva al massimo al 50% del normale solo grazie alle bombole (altrimenti sarebbe il 30%).
Il nome di questa parete è Hillary Step, a ricordare Sir Edmund Hillary, che per primo ha scalato l’Everest insieme allo sherpa Tenzing Norgay.
Oggi l’Hillary Step si supera grazie a una serie di corde fisse, ma fa paura pensare a come devono essersi sentiti quei due quando se lo sono trovato di fronte, alle 10 del 29 Maggio 1953 dopo molte ore di cammino, con le attrezzature dell’epoca. È stato Hillary a issarsi, con enorme sforzo, centimetro dopo centimetro, fino alla cengia che lo sovrasta e ad aprire la strada per gli ultimi metri, relativamente facili, fino alla vetta.

Quindi questo post è dedicato a Edmund Hillary che qualche giorno fa ha superato il suo ultimo gradino. Adesso l’Everest si chiama Sagarmatha in Nepal (सगरमाथा la Dea dei cieli) e Chomolungma in Cina (ཇོམོགླངམ la Dea madre della terra in tibetano), ma l’Hillary Step ha un solo nome, ovunque.

E poi è dedicato anche a te, tanto per dirti che, anche se hai la testa a grandi altezze, sono sempre contento di vederti e non sono arrabbiato…

La città delle tenebre

HakNam, la città delle tenebre, l’antica città murata di Kowloon è stata finalmente demolita nel 1983. Si trattava di un impressionante agglomerato urbano di 200 x 100 metri di solido cemento, con costruzioni alte 10, 12 e in qualche caso anche 14 piani, che era arrivato ad ospitare fino a 50000 persone.

Nato ai tempi della dinastia Song (960-1279) come avamposto per la difesa del sud, l’insediamento di Kowloon è ben più vasto della città murata. Il suo nome, Kau-lung (Traditional Chinese: 九龍, Simplified Chinese: 九龙) significa “nove dragoni” e deriva dagli otto picchi che la circondano (il nono era l’imperatore medesimo).
Quella che sarebbe diventata la città murata (o fortificata) era stata costruita come fortino a metà dell’800, ai tempi dell’annessione inglese dell’isola di Hong Kong con il trattato di Nanchino (1842).

Nel 1898, poi, l’enclave inglese di Hong Kong venne estesa ai cosiddetti Nuovi Territori sul continente, ceduti per 99 anni, escludendo, comunque, la città fortificata, che allora ospitava 700 persone. La Convenzione per l’estensione dei territori di Hong Kong stabiliva che la Cina avrebbe potuto tenervi truppe, purché non interferissero con il potere britannico sulla penisola.
Con il rispetto della parola data che distinse l’Impero Britannico, l’esercito inglese attaccò il forte solo un anno dopo, per trovarlo, però, completamente deserto.

Da quel momento, la questione della sovranità sulla città fortificata rappresentò sempre un buco nero diplomatico. Gli inglesi se ne disinteressarono, usandola al massimo come un luogo turistico in cui respirare un po’ di aria della vecchia Cina, mentre la popolazione ricominciò a crescere fino alla IIa guerra mondiale, quando i giapponesi occuparono Hong Kong e sfrattarono gli abitanti.
Dalla fine della guerra in poi la popolazione cinese riprese possesso della città che divenne il rifugio di migliaia di profughi in fuga di fronte alla rivoluzione comunista e di molti criminali comuni.

Il vero boom, però, si ebbe dal 1974 in poi, dopo che una spedizione di 3000 poliziotti fece piazza pulita dei componenti di una Triade che aveva stabilito la propria sovranità su quel luogo.
Libera dalla malavita organizzata e priva di qualsiasi controllo statale, Kowloon ricominciò a crescere come un’entità biologica. Le costruzioni si svilupparono l’una sull’altra senza alcun piano e vennero eseguite anche moltissime modifiche praticamente senza nessun intervento da parte di architetti o ingegneri. Migliaia di metri cubi vennero semplicemente assemblati in un patchwork monolitico, riducendo gradualmente gli spazi fino ad arrivare a situazioni paradossali in cui finestre si aprono letteralmente sul muro o sulle finestre del vicino.

In breve tempo, le strade come noi le conosciamo scomparvero dalla città murata. Gli unici spazi fra gli edifici si ridussero a stretti vicoli in cui raramente riusciva ad filtrare un raggio di sole.
Nel 1987 Kowloon raggiunse l’incredibile cifra di circa 50000 abitanti stipati in 0.026 km2 che corrisponde all’iperbolica densità di 1500000 esseri umani per km2.

Ciò nonostante, l’idea che la città delle tenebre fosse solo un luogo ad elevato tasso di criminalità è totalmente errata. Era sicuramente un luogo di illegalità diffusa: case da gioco, droga, prostituzione erano comuni a Kowloon, più o meno al livello di una qualsiasi metropoli. Ma la cosa notevole è che un luogo del genere sia riuscito ad esistere per tanto tempo privo di qualsiasi intervento statale.
La corrente elettrica veniva semplicemente rubata alla rete di Hong Kong, con un intrico di cavi e impianti autogestiti per distribuirla e soltanto alla fine degli anni ’70, dopo un incendio, le autorità intervennero installando delle linee quasi regolari. Per molti anni gli abitanti si procurarono l’acqua scavando una settantina di pozzi entro il perimetro della città e solo negli ultimi 20 anni il governo aveva installato delle tubature che portavano acqua pulita e controllata fino ai limiti della zona.

In realtà, la città murata è stata per molto tempo una TAZ, una zona temporaneamente autonoma, sganciata dai poteri locali e auto-organizzata in cui fiorivano una serie di attività come negozi, piccole fabbriche, studi medici e perfino scuole e asili nido, tutti privi di alcun permesso, ma necessari e professionali. C’erano anche molti ristoranti, un tempio e uno “yamen”, un ufficio in cui un saggio amministrava la giustizia e dirimeva le controversie, relitto di un lontano passato cinese.

E così la vita andava avanti, la gente si muoveva all’interno della città murata svolgendo servizi e raggiungendo il posto di lavoro, mentre i bambini, dopo la scuola, venivano portati a godere di un po’ di sole nei giardini sui tetti.

Il punto è che il tutto era organizzato e sostenuto autonomamente dalla cittadinanza a dispetto delle diversità e dei conflitti che in un luogo a così alta densità abitativa potevano facilmente esplodere, dimostrando così un incredibile spirito di adattamento e di tolleranza.

Non sono moltissimi i siti che ricordano ancora la città delle tenebre. Come tutte le TAZ, il potere, di qualsiasi tipo esso sia, cerca di lasciar sfumare il suo ricordo.
Oltre a wikipedia, c’è  il sito di una spedizione giapponese, ultima a visitarla dopo lo sgombero e prima della demolizione.
Altre testimonianze su YouTube qui e qui.

Standard elettrici nel mondo

Ach!
Finalmente una pagina utile in questo c…o di internet!
Standard elettrici in tutti i paesi del mondo con tensione, frequenza e tipo di presa.
Peccato manchi l’immagine della presa di tipo A.

Myanmar

Un pensiero per la Birmania.

Uno dei brani più famosi della musica classica birmana. Anticamente veniva eseguito a palazzo reale e nelle occasioni in cui il re si rivolgeva al popolo.
E mentre ascoltate leggetevi

Rudyard Kipling, Mandalay

che avrà anche degli accenti un po’ nefandi, da romantico colonialismo d’altri tempi e a tratti è buffa, però ha rappresentato per molto tempo la Birmania nell’immaginario occidentale…

By the old Moulmein Pagoda, lookin’ eastward to the sea,
There’s a Burma girl a-settin’, and I know she thinks o’ me;
For the wind is in the palm-trees, and the temple-bells they say:
“Come you back, you British soldier; come you back to Mandalay!”
Come you back to Mandalay,
Where the old Flotilla lay:
Can’t you ‘ear their paddles chunkin’ from Rangoon to Mandalay?
On the road to Mandalay,
Where the flyin’-fishes play,
An’ the dawn comes up like thunder outer China ‘crost the Bay!

‘Er petticoat was yaller an’ ‘er little cap was green,
An’ ‘er name was Supi-yaw-lat — jes’ the same as Theebaw’s Queen,
An’ I seed her first a-smokin’ of a whackin’ white cheroot,
An’ a-wastin’ Christian kisses on an ‘eathen idol’s foot:
Bloomin’ idol made o’mud —
Wot they called the Great Gawd Budd —
Plucky lot she cared for idols when I kissed ‘er where she stud!
On the road to Mandalay . . .

When the mist was on the rice-fields an’ the sun was droppin’ slow,
She’d git ‘er little banjo an’ she’d sing “Kulla-lo-lo!”
With ‘er arm upon my shoulder an’ ‘er cheek agin’ my cheek
We useter watch the steamers an’ the hathis pilin’ teak.
Elephints a-pilin’ teak
In the sludgy, squdgy creek,
Where the silence ‘ung that ‘eavy you was ‘arf afraid to speak!
On the road to Mandalay . . .

But that’s all shove be’ind me — long ago an’ fur away,
An’ there ain’t no ‘busses runnin’ from the Bank to Mandalay;
An’ I’m learnin’ ‘ere in London what the ten-year soldier tells:
“If you’ve ‘eard the East a-callin’, you won’t never ‘eed naught else.”
No! you won’t ‘eed nothin’ else
But them spicy garlic smells,
An’ the sunshine an’ the palm-trees an’ the tinkly temple-bells;
On the road to Mandalay . . .

I am sick o’ wastin’ leather on these gritty pavin’-stones,
An’ the blasted Henglish drizzle wakes the fever in my bones;
Tho’ I walks with fifty ‘ousemaids outer Chelsea to the Strand,
An’ they talks a lot o’ lovin’, but wot do they understand?
Beefy face an’ grubby ‘and —
Law! wot do they understand?
I’ve a neater, sweeter maiden in a cleaner, greener land!
On the road to Mandalay . . .

Ship me somewheres east of Suez, where the best is like the worst,
Where there aren’t no Ten Commandments an’ a man can raise a thirst;
For the temple-bells are callin’, an’ it’s there that I would be —
By the old Moulmein Pagoda, looking lazy at the sea;
On the road to Mandalay,
Where the old Flotilla lay,
With our sick beneath the awnings when we went to Mandalay!
On the road to Mandalay,
Where the flyin’-fishes play,
An’ the dawn comes up like thunder outer China ‘crost the Bay!

La vita nella guerra fredda – Novaya Zemlya

novaya zemlya
La curiosità è l’unica cosa che non mi è mai mancata. Le prime volte che andavo in Russia, per esempio, mi chiedevo spesso cosa diavolo c’era a Novaya Zemlya.
Questo grosso ‘isolone’ (circa 90.000 Kmq, con il punto rosso in figura), il cui nome (Но́вая Земля́) significa “nuova terra” (l’ennesima “terranova”), è piazzato per la sua intera superficie oltre il Circolo Polare Artico, fra la costa della Siberia e la banchisa polare, ed è in realtà un arcipelago formato da due isole principali chiamate, con la solita grande fantasia, Се́верный (severny = settentrionale) e Южный (yuzhny = meridionale). Però le due isole sono così vicine e le coste coincidono in modo tale che è difficile considerarle separate.
Sono divise solo da una sottile linea d’acqua, una sorta di fiume marino che attraversa l’isola da parte a parte, lo stretto di Matochkin (Ма́точкин Шар), che mette in comunicazione il mare di Barents e il mare di Kara, entrambi luoghi topici durante quella guerra mai combattuta apertamente, teatri di innumerevoli operazioni ufficialmente mai esistite.
Così, quando chiedevo a qualcuno cosa diavolo c’era a Novaya Zemlya, i miei amici mi ammonivano a non fare troppe domande, aggiungendo, con un tono più o meno scherzoso, che, di questo passo, prima o poi lo avrei visto di persona, con un biglietto di sola andata.
rompighiaccioUfficialmente, all’epoca, sull’isola si trovavano soltanto due insediamenti, Krasino sull’isola meridionale, e Matočkin’šar’ su quella settentrionale, nonché il centro amministrativo di Belushya Guba, con l’annessa base aerea di Rogachevo, in cui viveva la maggior parte degli abitanti dell’isola (meno di 3000 – qui il sito della base con molte foto stupende dal punto di vista naturalistico,ma anche affascinanti per l’isolamento dei luoghi, come in questa immagine invernale di un rompighiaccio in arrivo).
In realtà, Novaya Zemlya è stata dal 1954 uno dei principali siti dei test nucleari sovietici.
Qui sono esplose circa 130 bombe nucleari, di cui 88 nell’atmosfera, 39 sottoterra e 3 sott’acqua. Qui è esplosa anche la più potente bomba atomica mai costruita, la cosiddetta Tsar Bomba, un ordigno la cui potenza è stata stimata in 57 megatoni (circa 3000 bombe di Hiroshima), ma che in origine aveva una potenza doppia (100 megatoni: 6000 bombe di Hiroshima), ridotta in fase di test per evitare un fallout radioattivo eccessivo.
È stato calcolato che se una simile bomba fosse stata lanciata su Londra avrebbe distrutto ogni cosa nel raggio di 30 km (l’intera città e i sobborghi) e incendiato tutto ciò che si fosse trovato entro 90 km dal luogo dell’esplosione.
La bomba fu sganciata il 30 ottobre 1961 alle ore 8:33 da un aereo ad alta quota nella baia di Mityushikha e fu fatta esplodere a 4000 metri dal suolo con l’ausilio di un gigantesco paracadute finalizzato a frenarne la caduta e quindi a consentire al velivolo di allontanarsi indenne.
La nube a fungo risultante dall’esplosione raggiunse un’altezza di 60 km, l’onda d’urto fece tre volte il giro del mondo (impiegando per il primo circuito 36 ore e 27 minuti) e il lampo dell’esplosione risultò visibile ad oltre 1000 km di distanza. Ci fu anche un black out delle comunicazioni radio di circa 40 minuti in tutto l’emisfero settentrionale (provate a pensarci: un black out radio di 40 minuti sull’intero emisfero).
Tuttavia, contrariamente a quanto si può pensare, fu una delle esplosioni atomiche più “pulite” in quanto trasse oltre il 97% della sua potenza dalla fusione nucleare (qui potete vedere un filmato dell’esplosione da You Tube).
Il risultato di tutti questi test è che l’isola è costellata di basi, stazioni di controllo, tunnel per le esplosioni sotterranee e altri insediamenti che oggi diventano visibili anche alle persone comuni grazie a Google Earth.
Da questa pagina di wikimapia potete accedere a tutti questi luoghi un tempo segreti, oggi ampiamente documentati.

Il meglio degli acronimi


Un acronimo catalano un po’ sfortunato…
(Terrassa è un paese non lontano da Barcelona)
Via Boing Boing

Le isole senza lunedì

beringVisto che siamo in tema di ferie…

Lo stretto di Bering, situato fra l’Alaska e l’estremo oriente della Russia, è largo solo 53 miglia (circa 85 km). Considerato che nel mezzo dello stretto ci sono due isole, l’una russa e l’altra americana, separate da un braccio di mare di soli 3 km e che l’intero stretto è ghiacciato per tutto l’inverno, è la zona in cui l’Eurasia e l’America arrivano praticamente a toccarsi, è l’unico luogo in cui è possibile attraversare quell’immane fossa che è l’Oceano Pacifico, ma è anche il punto di contatto fra due realtà culturali diverse e per decenni nemiche.
Non è sempre stato così. Durante le ere glaciali, l’area dello stretto emergeva dalle acque formando un ponte di terra, detto Beringia, che poteva essere attraversato a piedi. I primi esseri umani arrivarono nel continente americano in questo modo durante l’ultima era glaciale, e si diffusero successivamente verso sud.
Lo stretto prende il nome da Vitus Bering, un esploratore russo (danese di nascita) che lo attraversò nel 1728. L’isolamento, il clima estremo, ma soprattutto le tensioni geopolitiche hanno fatto di questo luogo un limbo ghiacciato ai confini della realtà.
Ma la cosa più curiosa sono le due isole che si trovano esattamente nel mezzo.
Continue reading

I remember you well, in Chelsea Hotel…

chelsea hotel
…così inizia la canzone in cui Leonard Cohen ricorda la sua (breve) storia con Janis Joplin.
Ma la lista degli artisti che hanno abitato questo storico edificio al 222 West della 23ma strada è sterminata.
È il luogo in cui Dylan Thomas morì alcolizzato il 4 novembre 1953, Arthur Clarke scrisse 2001 Odissea nello Spazio, Allen Ginsberg e Gregory Corso si scambiarono idee e poesie, Sid Vicious accoltellò la sua girlfriend, Nancy Spungen, il 12 ottobre 1978 e Charles R. Jackson, autore di The Lost Weekend (portato in film da Billy Wilder: Giorni Perduti) si suicidò il 21 settembre 1968.
Ma è anche il luogo in cui vissero e scrissero persone come Mark Twain, William S. Burroughs, Arthur Miller, Gore Vidal, Tennessee Williams, Jack Kerouac, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Thomas Wolfe, Patti Smith, Virgil Thomson, Dee Dee Ramone, John Cale, Édith Piaf, Joni Mitchell, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Richard Hell (e anche il sottoscritto per circa un mese :mrgreen: ).
Ci abitò la troupe di Andy Warhol quando girava The Chelsea Girls (1966) e qui vissero, spesso pagando i conti con quadri o foto, artisti come Christo, Arman, Richard Bernstein, Ralph Gibson, Robert Mapplethorpe, Frida Kahlo, Diego Rivera, Robert Crumb, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Vali Myers, Donald Baechler, Willem De Kooning e Henri Cartier-Bresson.
“A rest stop for Rare Individuals”, così, a buon diritto, recita il sito del Chelsea Hotel per cui, però, sembra ormai giunta la fine. La famiglia Bard (attualmente rappresentata dal 72enne Stanley e da suo figlio David) che lo amministrava con illuminata magnanimità dal 1946, rifiutandosi di cedere alla logica degli alti prezzi degli alberghi di Manhattan è stata estromessa dal consiglio di amministrazione, che ha affidato il timone dell’hotel a un team reduce dalle ristrutturazioni di tre alberghi extralusso.
Così la storia di un hotel del quale The New York Times Book Review ha scritto che

si può considerare uno dei pochi luoghi civilizzati della città, se per civiltà si intende la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, la creatività e l’arte

potrebbe finire, sacrificata sull’altare del libero mercato, diventando un luogo frequentabile solo da star extralusso che di storia non ne hanno e nemmeno la fanno.
In questo caso, il Chelsea Hotel potrebbe diventare solo un territorio dello spirito, come è stato per il Beat Hotel, leggendario centro della beat generation a Parigi, che ormai non esiste più. Ora al numero 9 di rue Git-le-Coeur è situato lo sciccoso Relais-Hotel du Vieux Paris.

Dancing in the S.N.O.W. with Tanks

Dancing in the S.N.O.W. with Tanks (danzando nella neve con carri armati) è un altro brano del nostro duo che accosta le vibrazioni delle campanine ortodosse a sonorità di tipo industriale.
Il titolo viene da un mio antico ricordo: quello di un monastero ortodosso con intorno un parco, la neve alta, il vento e il fruscio dei passi della gente che si avvia verso la chiesa mentre diverse campanine suonano ripetutamente creando un sottofondo continuo, ma fuori, subito al di là del parco, si muovono carri armati.
Alla fine, quando i carri hanno preso posizione e i soldati entrano nel parco, io e la mia interprete siamo gli unici rimasti fuori ed è calata una pace minacciosa, ma sensibile, tanto che anche i soldati avanzano lentamente, attenti a non fare rumore…
(ciò non toglie che immediatamente dopo sequestrano la mia macchina fotografica e riducono la pellicola a un groviglio di plastica accartocciata)

NB: con la banda ridotta degli schifosissimi altoparlantini del computer se ne sente metà (forse meno). Mancano i bassi e gli acuti estremi e sia le fasce continue che gli intermezzi rumoristici perdono completamente di profondità. Sorry.

S.N.O.W. is
Federico Mosconi: electric guitar, various effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop

Dancing in the S.N.O.W. with Tanks

L’isola di Hashima

 

Hashima (Gunkanjima) | Travel Japan - Japan National Tourism Organization  (Official Site)

L’isola di Hashima (端島 trad. qualcosa come isola di confine o isola del bordo), chiamata anche Gunkanjima (軍艦島 trad. isola nave da guerra, per le coste cementate e la forma), è una delle 500+ isolette disabitate nei pressi di Nagasaki, nella parte sud.ovest del Giappone.
Il fatto è che, invece, fino al 1974, era uno dei luoghi a più alta densità abitativa del globo. L’isola fu acquistata dalla Mitsubishi nel 1890, con l’idea di scavarvi una miniera di carbone.
Nel 1916 vennero costruiti gli alloggi per i lavoratori e la miniera venne sfruttata fino al 1974. Nel 1959 la popolazione raggiunse i 5000 abitanti circa, cioè 835 abitanti per ettaro, che equivalgono alla pazzesca densità di 83500 ab. per Km2 (1 ettaro = 0.01 Km2; per confronto, la regione italiana con la densità maggiore è la Campania: 421 ab./Km2).
Il verde era quasi completamente scomparso dall’isola, tanto che qui venne girato il film Midori Naki Shima (The Greenless Island, 1949). Un altro famoso (in Giappone) film ambientato in Gunkanjima è il recente seguito di Battle Royale: Battle Royale II, The Requiem (2003).
Negli anni ’60, poi, iniziò il declino del carbone e l’isola venne gradualmente abbandonata, fino alla sua chiusura definitiva nel 1974 (chiusura anche a qualsiasi tipo di visita perché pericolosa: io l’ho visitata a suo tempo approfittando del caos creato da una manifestazione di Greenpeace).
Stranamente, non è stata fatta nessuna riconversione. Gli edifici sono stati abbandonati all’usura del tempo e sono ormai dei ruderi spettrali che stanno assumendo un valore di archeologia industriale al punto che il governo pensa di riaprirla (una decisione era attesa per Aprile, ma non ne so niente).
Trovate delle belle foto qui