I cani della metro di Mosca

Quello dei cani randagi che vivono nella metropolitana di Mosca è uno dei più strani e interessanti ecosistemi urbani esistenti.

Anche a causa della durezza dell’inverno russo, nel sistema di gallerie della metro moscovita, che attualmente si estende per circa 300 km, girano ormai più di 500 cani randagi che sopravvivono chiedendo cibo ai passanti. Contrariamente a quanto si può pensare, non ci sono stati casi di attacco agli esseri umani, anzi, qualche volta è accaduto il contrario.

Alcuni anni fa, per esempio, Yulia Romanova, una modella 22enne, stava rientrando a casa con il suo staffordshire terrier quando, nella stazione Mendeleyevskaya ha incontrato Melchik, un randagio nero che, alla vista dell’altro cane, ha iniziato ad abbaiare per difendere il proprio territorio perché, per lui, quella era la sua stazione. Invece di scansarlo come facevano tutti, Yulia Romanova si è diretta con decisione verso Melchik e lo ha accoltellato, uccidendolo. Di conseguenza è stata arrestata e la sua unica possibilità di evitare il carcere è stata di sottoporsi a un anno di trattamento psichiatrico.

Una statua bronzea di Melchik (nella foto a fianco), pagata da donazioni spontanee, è state eretta all’entrata della Mendeleyevskaya, a testimonianza della simpatia dei moscoviti (Update: è nata una usanza secondo la quale accarezzare il naso di Melchik porta fortuna).

Ma, al di là di queste storie folkloristiche, l’organizzazione sociale dei randagi della metropolitana ha dei tratti di adattamento unici, tali da essere oggetto di studi.

È risultato, infatti, che alcuni cani sono diventati più abili di altri nell’individuare le persone da cui è più probabile ottenere qualcosa e nell’evitare quelle potenzialmente ostili. Questo fatto, in sé, non è così sorprendente, i cani sono intelligenti.

La cosa interessante, però, è che, secondo Andrei Poyarkov, ricercatore presso l’ A.N. Severtsov Institute of Ecology and Evolution, che studia i 35.000 randagi di Mosca ormai da 30 anni, nel caso dei cani della metropolitana sembra essere cambiato il modo in cui nei piccoli branchi si afferma un capo, cioè il cane alfa. Quest’ultimo, normalmente, è il più forte, il che, in campo aperto, equivale anche a una maggiore efficacia nella caccia. Però, in questo caso, sembra invece essere diventato il più abile nel procurarsi il cibo, indipendentemente dalla sua forza fisica.

Il punto più importante è proprio questo: questi cani, che in base al loro comportamento Poyarkov classifica nella categoria dei “mendicanti”, hanno realizzato che, in questo ambiente, la forza fisica non equivale a una maggiore sicurezza di nutrimento, ma, al contrario, un piccolo, ma grazioso esemplare ha più possibilità di ottenere qualcosa avvicinandosi a chi, magari, sta tornando a casa dopo aver fatto la spesa, rispetto a un grosso cane che può anche fare paura.

Notevole è anche il fatto che alcuni di questi cani hanno sviluppato la capacità di muoversi da una stazione all’altra prendendo i treni. Non è ancora chiaro come riconoscano la stazione a cui scendere, ma si presume che si basino su qualche odore particolare e che abbiano imparato a riconoscere l’annuncio della fermata (nella metro russa il conduttore annuncia sempre la prossima fermata). In questo modo, alcuni cani incorporano più stazioni nel proprio territorio e si spostano regolarmente dall’una all’altra a orari precisi. È normale, quindi, vedere un cane, da solo, che aspetta il treno sempre a quell’ora in una certa stazione, come nell’immagine di apertura di questo post.

C’è anche un sito dedicato ai cani della metro di Mosca (in russo): metrodog.ru

Il disastro del lago d’Aral

Ex lago di AralPensavo che queste immagini di navi da pesca abbandonate in mezzo al deserto fossero famosissime.

Era un po’ che volevo parlare del disastro ecologico del lago di Aral, o meglio ex lago di Aral. Non l’ho fatto perché ero convinto che fosse universalmente noto. Poi, conversando con un po’ di gente, mi sono reso conto che è solo vagamente noto, quindi ve lo racconto, con l’aiuto di wikipedia.

L’Aral (in russo Aralskoje More, Аральскοе мοре; in kazako Арал Теңізі) è un lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan (nel territorio della repubblica autonoma del Karakalpakstan) e il Kazakistan. Il nome deriva dal chirghiso “Aral Denghiz”, che significa “mare delle isole”, a causa delle numerose isole che erano presenti nei pressi della costa orientale. È talvolta chiamato erroneamente mare d’Aral, poiché possiede due immissari (Amu Darya e Syr Darya) ma non ha emissari che lo colleghino all’oceano; è infatti un bacino endoreico.

Un bacino endoreico è semplicemente un bacino idrografico senza emissari.

È interessante chiedersi come un bacino endoreico possa mantenersi in equilibrio, visto che l’acqua entra, ma non esce. Come mai non si espande oltre un certo limite?

La risposta è la stessa dei mari e degli oceani: l’evaporazione. È l’evaporazione a far sì che il lago possa espandersi fino a un certo punto, ma non oltre, in proporzione alla quantità di acqua che riceve.

Ma la cosa non sta ancora in piedi se non si aggiunge un altro tassello. Il bacino idrografico che alimenta il lago, infatti, può essere anche immenso. Quello del Mar Caspio, per esempio, si estende per diversi milioni di km2.

Il bilancio con l’evaporazione forma un lago di “soli” 371000 km2. Questo perché l’evaporazione aumenta esponenzialmente con la superficie del lago. Più la massa d’acqua è estesa, più l’evaporazione incide. Ad un certo punto si arriva all’equilibrio.

Questo equilibrio, tuttavia, è precario. Il clima, l’esposizione solare e le precipitazioni condizionano sia l’entità dell’evaporazione che la quantità di acqua affluente.

Di conseguenza, questi specchi d’acqua possono manifestare grosse variazioni di superficie, non solo in tempi lunghi nel corso della loro storia, ma anche su tempi dell’ordine di pochi mesi, seguendo variazioni dell’andamento meteorologico stagionale.

L’evaporazione, infatti, aumenta con la temperatura e diminuisce con l’umidità relativa (la cosiddetta pressione di vapore): all’aumentare della temperatura aumenta il flusso evaporante, ma via via che ci si avvicina alla saturazione, il flusso diminuisce fino a stabilizzarsi. Il vento, però, portando via l’umidità (cioè il vapore acqueo), favorisce l’evaporazione.

L’equilibrio è delicatissimo. Ciò nonostante le variazioni del lago non comportano quasi mai la sua estinzione perché al diminuire della superficie d’acqua, diminuisce anche l’evaporazione.

Contrariamente a quanto si dice, non abbiamo notizie storiche di sparizioni e riapparizioni del lago di Aral. Si sa, invece, che la sua superficie si è ridotta fino al 1880 per poi aumentare fino al 1908. Si sa anche che nell’antichità aveva un emissario che portava le sue acque fino al mar Caspio e che fungeva da via navigabile collegata alla via della seta.

Il disastro iniziò ai primi del ‘900, quando si cominciarono ad utilizzare le acque dei suoi due immissari per alimentare le coltivazioni. All’inizio, comunque, lo sfruttamento era contenuto e non si notò niente di strano, anzi il lago sembrava crescere.

Nell’immediato dopoguerra, però, l’utilizzo delle acque dell’Amu Darya e del Syr Darya fece un salto notevole: le loro acque vennero prelevate da svariati canali al fine di irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti.

Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952 alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev. Voropaev durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto.

Un atteggiamento che oggi passa per folle, ma che negli anni 50/60 non lo era. Non voglio in alcun modo giustificarlo, ma solo inquadrarlo storicamente. Fino al diffondersi di una certa coscienza ecologica, la specie umana ha fatto migliaia di interventi di questo tipo (e anche oggi continua a farli) con risultati a volte buoni, a volte disastrosi, ma più spesso non ottimali, ma nemmeno così terribili.

Abbiamo deviato e interrato fiumi con effetti a volte pessimi, ma altre volte non così cattivi. Credo che meno di 1/1000 degli abitanti delle città siano consci di quanti fiumi interrati scorrano sotto i loro piedi (e quanto grandi siano) e di come siano stati deviati e rimodellati quelli esistenti. Per esempio, non so quanti moscoviti che passeggiano nel centralissimo quartiere Presnenskij sappiano che sotto i loro piedi scorre il Presnja, affluente non proprio piccolo della Moscova (in compenso, i genovesi si sono ben accorti dell’esistenza del Fereggiano).

Nella nostra storia abbiamo desertificato intere zone e bonificato paludi rendendo abitabili altri terreni, abbiamo spianato montagne, costruito isole e tagliato canali per collegare mari e oceani nonostante tonnellate di profezie avverse. Tutte queste azioni hanno cambiato il volto del pianeta, ma non decisamente in bene o in male. Hanno effetti positivi e negativi, però secondo me, nella maggior parte dei casi non ci è andata così male, prova ne sia il fatto che spesso non sappiamo nemmeno che queste cose sono state fatte.

Per esempio, sarebbe interessante sapere quanti di coloro che atterrano al Kansai International Airport (Osaka) o a Kobe, sanno che la terra su cui posano i piedi non c’era, prima che gli aeroporti venissero progettati (sono isole artificiali).

Nel caso del lago di Aral, i pianificatori ritenevano che il lago, una volta ridotto ad una grande palude acquitrinosa sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso, ma hanno sbagliato i calcoli, se mai li hanno fatti. Quello che invece è accaduto è che

Nel corso di quattro decenni la linea della costa è arretrata in alcuni punti anche di 150 km lasciando al posto del lago un deserto di sabbia salata invece del previsto acquitrino. A causa infatti della sua posizione geografica (si trova al centro dell’arido bassopiano turanico) è soggetto a una forte evaporazione che non è più compensata dalle acque degli immissari. L’impatto ambientale sulla fauna lacustre è stato devastante. Per far posto alle piantagioni, i consorzi agricoli non hanno lesinato l’uso di diserbanti e pesticidi che hanno inquinato il terreno circostante. Il vento che spira costantemente verso est/sud-est trasportando la sabbia, salata e tossica per i pesticidi, ha reso inabitabile gran parte dell’area e le malattie respiratorie e renali hanno un’incidenza altissima sulla popolazione locale. Le polveri sono arrivate fino su alcuni ghiacciai dell’Himalaya.

MappaAl posto delle acque del lago oggi ci sono 40 000 km2 di zona secca, di colore bianco a causa del sale sul terreno, denominati deserto del Karakum.

Cliccando questa immagine animata (guardatela per circa 30 sec.) potete apprezzare l’entità del disastro. Dal 1987 il lago si è diviso in due: la parte a nord, più piccola, è chiamata Piccolo Aral e quella a sud, ovviamente, Grande Aral. La diminuzione della superficie d’acqua ha superato il punto di non ritorno e senza interventi la totale scomparsa del lago sarebbe ormai inevitabile.

I pochi interventi sono iniziati nel 2000 con la messa in sicurezza della base militare sovietica che sorgeva su una delle isole.

Per anni una grave preoccupazione era costituita dall’installazione militare sovietica abbandonata dal 1992, i cui resti si trovano tuttora su quella che una volta era l’isola di Vozroždenie. In quella base infatti venivano condotti esperimenti di armamenti chimico-batteriologici. A causa dell’abbassamento del livello del lago, tale isola ormai era di fatto diventata parte della terraferma e facilmente raggiungibile. La presenza di fusti di antrace e di altri agenti tossici era nota e confermata sia dalle autorità ex-sovietiche, sia dalle autorità uzbeke, sia da quelle statunitensi incaricate di indagare sulla effettiva pericolosità del luogo. Tale installazione è stata bonificata definitivamente nel 2002 con uno sforzo congiunto delle autorità del Kazakistan e dell’Uzbekistan coadiuvate da consulenti statunitensi. Periodici sopralluoghi vengono via via effettuati nella zona per accertare l’eventuale persistenza di agenti tossici.

La difficoltà dell’intervento è acuita dal fatto che il territorio dell’Aral è diviso fra Kazakistan e Uzbekistan. Inoltre i suoi ex affluenti interessano anche Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan ed in parte Afghanistan.

Allo stato attuale, l’unica nazione che ha intrapreso provvedimenti concreti per la situazione è il Kazakistan. In pratica, al di là di alcuni accordi formali tra loro, i governi delle altre nazioni che insistono nell’area interessata al passaggio dei due fiumi non hanno intrapreso significative azioni comuni per ripristinare l’afflusso delle acque verso il bacino del lago. Il motivo è che la coltivazione del cotone impiega ormai una quantità di lavoratori cinque volte maggiore di quella che una volta era impiegata nella pesca, che peraltro era concentrata nei soli Kazakistan ed Uzbekistan. Inoltre i terreni che le acque del lago hanno scoperto ritirandosi hanno mostrato di essere ricchissimi giacimenti di gas naturale. Nel corso del 2006 un importante accordo per lo sfruttamento del sottosuolo del lago è stato raggiunto tra il governo dell’Uzbekistan, la società russa LUKoil, la Petronas, la Uzbekneftegaz e la China National Petroleum Corporation. Un eventuale ritorno dell’acqua al livello originario sulla riva uzbeka renderebbe complicato questo genere di attività.

L’intervento kazako, finanziato dalla Banca Mondiale, si è concentrato sul Piccolo Aral e ha comunque raggiunto dei risultati notevoli. È stata costruita una diga per isolare il lago a nord dalla parte sud e ricongiunto al lago l’antico affluente Syr Darya, seppure con afflusso ridotto.

Grazie a ciò

Dal 2003 al 2008 la superficie del Piccolo Aral è passata da 2.550 km² a 3.300 km². Nello stesso periodo la profondità è passata da 30 a 42 metri. In alcuni villaggi è ripresa l’attività di pesca dopo che alcune specie di pesci erano state reintrodotte proprio per tentare di rendere la pesca nuovamente praticabile. Nel 2011, secondo le dichiarazione del presidente kazako Nursultan Nazarbayev, la quantità di pescato del Piccolo Aral è arrivata a 6000 tonnellate. Secondo gli imprenditori locali, il pescato del 2011 ammonterebbe addirittura a 18.000 tonnellate. Le acque del lago, inoltre, sono risultate abbastanza pulite da essere potabili e la salinità è tornata ai livelli simili a quelli pre-1960.

Tutto questo dimostra che, una volta fatto il danno, non tutto è perduto e che politiche e investimenti mirati possono ripristinare, almeno in parte, la situazione originaria. Tuttavia l’ambiente è transnazionale e spesso una delle cose più difficili da ottenere è il consenso di tutti i paesi interessati.

Il Kazakistan, che ha nel proprio territorio il Piccolo Aral, ha aderito al programma di salvataggio, ma l’Uzbekistan, nel cui territorio giace quanto rimane del Grande Aral, no.

Le autorità dell’Uzbekistan ritengono che ormai la situazione sia talmente compromessa che l’unica soluzione sia quella di investire nel rinverdimento del deserto lasciato dal lago evaporato invece di provvedere ad un suo eventuale nuovo riempimento. Stanno avendo un discreto successo delle opere di rimboschimento di Haloxylon ammodendron, un arbusto noto anche con il nome di “albero del sale”, in grado di vivere in ambienti aridi e dalla salinità elevata. Secondo un piano curato da autorità tedesche, uzbeke e kazake, nel giro di 10 anni circa 300.000 ettari saranno rimboschiti con questo tipo di vegetazione. L’obiettivo è quello di ridurre del 60%-70% la velocità del vento al suolo durante le frequenti tempeste di sabbia in modo da ridurre sensibilmente la quantità di polveri che i venti portano nei dintorni.

Così abbiamo due strategie praticamente opposte che tendono entrambe alla riduzione del danno, ma in modi diversi. Entrambe sono maledettamente costose.

Adesso ci potrebbero stare tonnellate di commenti moralisti del tutto inutili, perciò mi asterrò dal farli. Solo in parte l’uomo è in grado di imparare dai propri errori. Più spesso la memoria è soverchiata da considerazioni contingenti o che appaiono tali.

L’unico aspetto positivo di questa storia è che, proprio in tempi recenti, sul fondo prosciugato del lago sembra siano riapparsi i resti, risalenti al XIII-XIV secolo, di un’antica città.

Qualche altra immagine della zona del disastro (click per ingrandire).

Mosfilm

SolarisLa storica compagnia cinematografica di Mosca, Mosfilm, che ha realizzato molti classici, fra cui vari film di Tarkovsky, ha messo parte della propria produzione su You Tube in HD.

Questo è il canale della Mosfilm, qui con traduzione italiana grazie al solito Google. I film sono in lingua originale con sottotitoli in inglese.

La vita nella zona morta

A 25 anni dall’incidente la zona di Chernobyl è tuttora off-limits per gli esseri umani e lo sarà ancora per molti anni.

Non così per la natura. Abbiamo già parlato dell’esplosione di vita che si registra nella zona di alienazione, tale da lasciare sbigottiti scienziati e ambientalisti che ormai consideravano quel cerchio di 30 km di diametro come una zona morta.

Le immagini che vedete qui sotto (click per ingrandire e ancora click per dimensione massima) sono tratte dal documentario Chernobyl – Life in the dead zone, un bellissimo film, visibile anche su You Tube, che, dietro alla storia di una gatta e dei suoi gattini, mostra come, nonostante la radioattività, flora e fauna prosperino in modo mai visto prima.

È un film poetico che sembra pieno di speranza. In fondo la zona non è diventata quel deserto radioattivo che tutti immaginavano.

Lasciata a sé stessa, senza l’interferenza della specie umana, la natura trova sempre il modo di andare avanti.

Moscow-Vladivostok: virtual journey on Google Maps

The great Trans Siberian Railway, the pride of Russia, goes across two continents, 12 regions and 87 cities.

The joint project of Google and the Russian Railways lets you take a trip along the famous route and see Baikal, Khekhtsirsky range, Barguzin mountains, Yenisei river and many other picturesque places of Russia without leaving your house. Videos are available at very high resolution, until 1080 points.

During the trip, you can enjoy Russian classic literature, brilliant images and fascinating stories about the most attractive sites on the route.

Let’s go!

transib

Scritte dal cielo

Quelle che vedete sono probabilmente alcune delle più antiche scritte sulla terra visibili da Google Earth/Maps e si trovano in Russia. Sono state create intervenendo in modo appropriato sulla vegetazione per celebrare anniversari dello stato sovietico e sono vere e proprie opere di land art.

La prima, che recita 100 anni di Lenin è del 1970, mentre le altre, che celebrano i 50 e 60 anni di Russia sovietica, sono del 1967 e 1977. Le dimensioni sono enormi e da terra non ci si rende conto di cosa rappresentano: in base alla scala di Google Maps, per es., la prima è lunga circa 500 m.

Come al solito le immagini sono cliccabili. Andate a vederne altre su English Russia.

Basso Profondo

Uff, finalmente oggi posso dormire… Sono quasi due settimane che mi alzo all’alba.

Intanto beccatevi questi notevoli esempi di basso profondo tipico della scuola russa. Dice bene johnxxx20000 che ha inserito il video in YouTube:

Here are two short extracts of an exceptional record of Russian choral work (which includes anonymous ancient liturgical chant, popular folk songs, and music by well known Russian choral composers, such as Tchesnokov and Gretchaninov), introducing some of the lowest voices in the world. The two singers here are Vladimir Pasuikov and, with an even lower voice, Viktor Wichniakov, one of the most famous Basso Profondo, who are unique to Russian singing. Their vocal range is at least one octave below the normal bass range (think Paul Robeson). In the first extract the bass hits the low Ab1; in the second the bass hits a G1. Not only do they possess the lowest notes of any choral singer, but the soloists have such full voices that the effect is immediately striking.
Enjoy those exceptional samples of the magnificent Russian choral art!

Comunque, uno degli effetti collaterali di You Tube che mi colpisce maggiormente e in modo sfavorevole è il fatto che, ormai, per mettere in internet della musica si sia costretti a realizzare un video. Per es. questo post è musicale. Qui il video ha una importanza assolutamente marginale e se ne potrebbe benissimo fare a meno. Esiste solo per poter mettere il tutto su uno dei siti più cliccati dell’orbe terracqueo.

Gorbačëv: il video

Difficilmente il metal trova spazio su questo blog, ma stavolta facciamo un’eccezione, non tanto per la musica, quanto per il video. Girato qualche mese fa da Tom Stern per la band russa ANJ, è sufficientemente assurdo da meritarsi una citazione.

L’allegoria di Stalin come zombie e di Gorbačëv come una specie di Conan con tanto di ascia bipenne è già divertente, ma secondo me, le cose migliori sono i manifesti della vecchia propaganda sovietica che, animati, fanno da sfondo al video.

Potete vederlo qui in alta risoluzione

Città di Ombre

titarenko

Alexey Titarenko è l’autore di questa e molte altre foto in cui, grazie a una macchina fissa e lunghi tempi di esposizione, San Pietroburgo si trasforma in una affascinante città di ombre…

Zona di Alienazione

La zona di alienazione, detta anche zona dei 30 Km, zona di esclusione o semplicemente la zona, è un’area di circa 30 km di diametro attorno a Chernobyl interdetta agli esseri umani a causa della radioattività che permane e rimarrà per migliaia di anni in seguito al disastro del 26 Aprile 1986.

Sebbene gli effetti delle radiazioni siano visibili anche sugli animali (sono stati documentati vari casi di albinismo negli uccelli e mutazioni genetiche nei topi), sembra che per la natura, la scomparsa di ogni attività umana abbia effetti così benefici da compensare anche la presenza delle radiazioni. Senza i limiti imposti dall’uomo, infatti, piante e animali prosperano in modo mai visto prima ed è interessante notare come anche gli studiosi abbiano diverse opinioni sulla situazione. Vedi, per esempio, questi due articoli della BBC, il primo intitolato “Wildlife defies Chernobyl radiation“, mentre il secondo avverte “Chernobyl ‘not a wildlife haven’“.

Quest’area è ormai divenuta una TAZ (zona temporaneamente, ma forse anche definitivamente autonoma). La natura se l’è ripresa e anche nella città di Pripyat, praticamente disabitata, non è raro incontrare un lupo, un orso o una volpe che attraversano la strada.

Nonostante i controlli di polizia, comunque, vi sono ancora circa quattrocento persone, soprattutto anziane, che in un modo o in un altro, sono tornate nelle loro case e vivono nell’area circostante la centrale, rifiutandosi di abbandonare le loro abitazioni. Si cibano dei prodotti della terra, mangiando alimenti come verdura e funghi e bevendo l’acqua dei torrenti, altamente contaminati.

Vi confesso che l’idea di andarci e concludere la vita con un blog dalla zona del disastro è affascinante.

Qui sotto, alcune immagini della città e del fiume Pripyat (cliccate sulle immagini per ingrandirle).

Il luna park visto dalla casa della cultura e un panorama della città con il sarcofago sullo sfondo.
L’entrata a Pripyat e alcuni edifici
Navi abbandonate sul fiume Pripyat, nei pressi della centrale