Retromania

Sto leggendo Retromania, di Simon Reynolds (Isbn Edizioni, Milano, 2011, 506 pagg., € 26.90). Non l’ho ancora finito (sono circa a metà), quindi questa è una recensione parziale, comunque fin qui mi sembra un libro decisamente ben scritto e argomentato, ricco di fatti, quasi troppo e questo è il suo unico limite: avrebbe potuto risparmiarci un po’ di queste 433 (506 con bibliografia e indici) pagine. Però non mi lamento: avercene di critici con questa profondità di analisi e documentazione. Ottima anche la traduzione di Michele Piumini.

Qui Reynolds esamina la tendenza al remake che ha colpito la scena pop/rock a partire dal nuovo millennio, simboleggiata dall’apertura, nell’Aprile 2000, del Memphis Rock’n’Soul Museum presso lo Smithsonian Institution.

Questa faccenda, in effetti, è una delle cose che mi colpiscono maggiormente nella musica attuale, raramente in senso positivo, più spesso negativamente. Come recita l’introduzione,

un tempo il pop ribolliva di energia vitale … i duemila sembrano invece irrimediabilmente malati di passato …

Perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando esauriremo il passato a cui attingere? Riusciremo ad emanciparci dalla nostalgia e a produrre qualcosa di nuovo?

Ma mi rendo conto che il significato negativo che io attribuisco alla retromania può dipendere anche dal fatto che io ho vissuto quel passato e quell’energia vitale, perciò non riesco ad accettare facilmente i rifacimenti proposti dalla musica attuale che finiscono spesso per sembrarmi delle brutte copie prive della forza e del significato dell’originale.

Comunque, fra le domande che l’autore si pone, la prima e l’ultima mi sembrano le più stringenti. La seconda, a mio avviso, è inutile: il passato, infatti, non si esaurisce mai. Come le mode insegnano, c’è sempre qualcosa da rifare o qualche modo diverso di rifarlo.

Stiamo, infatti, assistendo ad una celebrazione del passato che interessa tutti i settori, nessuno escluso: dal più comune, quello dell’abbigliamento, fino all’arredamento, alla televisione, al cinema, a giocattoli e videogiochi, all’alimentazione, per arrivare al retro-porno (tipo il vintage hairy, il porno prima dell’avvento della depilazione totale).

Nel tentativo di dare una spiegazione, il testo di Reynolds si apre con una impressionante e un po’ angosciante retrologia: una lista di date e fatti che copre il decennio 2000/2009 e va dai musei celebrativi come il già citato Memphis Rock’n’Soul Museum o l’Experience Music Project di Paul Allen, passa per le reunion (più di 30, forse 40 in 10 anni: in molti casi una funerea parata di individui attempati e acciaccati, spesso ancora in grado di suonare bene, ma che si atteggiano squallidamente a ventenni), e arriva ai concerti delle tribute band e alle riedizioni/rifacimenti di dischi e perfino di avvenimenti storici (come l’attraversamento in massa di Abbey Road l’8 Agosto 2009, 40 anni dopo quello dei Beatles per la copertina dell’album omonimo).

Per quel che riguarda la musica pop, l’ipotesi centrale è che uno degli elementi scatenanti di questa tendenza sia l’accumulo reso possibile da internet. Sulla rete si mette ormai tutto e c’è posto per tutto. Fotografie, canzoni, video, spezzoni televisivi, libri, vecchie riviste, grafica e chi più ne ha, più ne metta. Con l’apparizione dei cellulari multifunzione, tutti girano con una videocamera, una macchina fotografica e un registratore. Documentare il presente e metterlo in rete è facilissimo, ma il presente diventa rapidamente passato. Inoltre, la gente, ormai, mette in internet non solo l’attualità, ma anche i propri ricordi e generalmente quello che ama o che reputa importante: cimeli sotto forma di immagini fisse, video e suono stanno saturando lo spazio disponibile in rete, spazio che, però, continua ad allargarsi grazie alla riduzione del costo delle memorie di massa.

La condivisione di tutto questo materiale, poi, è imposta da coloro che offrono lo spazio. Entità come You Tube guadagnano solo grazie alla pubblicità e quest’ultima è attirata solo dalla quantità dei contatti. Ne consegue che il materiale disponibile deve essere condiviso e deve essere molto (sia la qualità che i contenuti non hanno grande importanza; quello che conta è che generino contatti).

A questo punto, secondo Reynolds,

il puro e semplice volume del passato musicale accumulato ha cominciato ad esercitare una sorta di attrazione gravitazionale.
[…]
I musicisti divenuti maggiorenni in questo periodo sono cresciuti in un clima caratterizzato da un grado di accessibilità del passato travolgente e senza precedenti

Inoltre, aggiungo io, per ragioni anagrafiche, non hanno vissuto il passato e quindi ne sono affascinati.

Di conseguenza

l’esigenza di movimento, di arrivare da qualche parte, poteva essere soddisfatta altrettanto facilmente (anzi, più facilmente) volgendosi a questo immenso passato e non guardando avanti.

In effetti, un paragone fra la disponibilità attuale e quella mia o di Reynolds (io sono del ’54, lui del ’63) è improponibile. Ai nostri tempi, il passato spariva. Gli album andavano rapidamente fuori catalogo e se non si acquistavano nei primi anni erano facilmente perduti. Per di più, il file sharing dei tempi andati si limitava alle audio-cassette e l’accesso ai dischi dipendeva dalla disponibilità economica.

Oggi, nell’oceano di internet si può pescare quasi tutto al solo costo della connessione (peraltro necessaria anche per altre cose) ed è quindi normale andare ad ascoltarlo, così come è facile crogiolarvisi dentro. La situazione della creatività attuale è resa difficile proprio dal fatto che, a differenza di quanto avveniva prima di internet, il passato non scompare mai. Io, per esempio, avevo 12/13 anni quando ho iniziato ad ascoltare seriamente il rock e ho conosciuto prima i gruppi miei contemporanei (ex: Beatles, Stones e gli altri) e solo qualche anno dopo ho ascoltato quelle che erano le radici di queste band, cioè il blues e il rock’n roll. Attualmente, invece, tutto è contemporaneamente disponibile.

Nello stesso modo, io vedevo dei dischi e delle band diventare vecchi, mentre altri generi e band nascevano. Avevo, cioè, una percezione del tempo lineare e orientata da un passato verso un futuro. Attualmente, invece, il movimento è stato sostituito dall’accumulo: non si va da un passato, con delle cose che invecchiano e scompaiono, a un futuro che propone delle novità, ma si aggiungono altre cose che si stratificano in un immenso deposito che tende ad annullare il tempo e a produrre quello Reynolds chiama stallo temporale il cui effetto finale è di bloccare qualsiasi tendenza al progresso (inteso come semplice movimento, senza un giudizio di valore) e produrre un continuo rimescolamento di ciò che esiste o è esistito.

Cambiare modo

No, non è l’ennesimo appello per una nuova politica, ma la constatazione che nel mondo c’è qualcuno che si diverte a spostare le canzoni da maggiore a minore o viceversa.

In realtà, il fatto che il modo maggiore comunichi felicità, gioia e che il minore sia più adatto alla tristezza e alla malinconia è un po’ più di una credenza. Un ricercatore ha scoperto che l’intervallo di terza minore compare nella parlata degli attori quando vogliono comunicare tristezza (qui l’articolo su Scientific American), almeno nella cultura occidentale. Nella nostra musica, questa connotazione dei modi è in uso fin dal 17mo secolo.

Ora scopro che qualche buontempone impiega tempo e risorse per cambiare il modo delle canzoni producendo curiosi quanto, a mio avviso, discutibili risultati.

Ecco, per esempio, Hey Jude, spostata da maggiore a minore.

Notate che il farlo sarebbe semplice se il pezzo venisse rieseguito, ma questi lo fanno editando digitalmente il file originale e ri-intonando solo le note e gli accordi che vanno cambiati, la qual cosa non è così semplice.

Il principale autore di questo rifacimento è tale Oleg Berg, musicista ucraino, che ha varato il progetto Major versus minor.

Ancora più strana suona The House of Rising Sun

Vi riporto questa cosa come curiosità. Ovviamente non sono contrario. Ognuno è padrone di usare il suo tempo come vuole. Mi lascia solo un po’ perplesso il fatto che una cosa che facevamo per gioco quando eravamo al liceo venga proposta come un’idea interessante e soprattutto che venga messa in vendita. $10 per l’album e $1 per il singolo brano, come se fosse roba sua. Oltretutto, cambiare un brano di un autore senza il suo permesso e venderlo non è una cosa simpatica. Tecnicamente è anche un reato. Ora, a me del diritto d’autore interessa poco. I miei brani sono in CC, ma se qualcuno prende un mio pezzo cambiando qualcosa e lo vende, mi inca**o anch’io.

Posted in Pop

Kenzo Electric Jungle

Mat Maitland per Kenzo. Pop raffinato. Gustoso.

Visibile in grandi dimensioni su Vimeo e su You Tube.

Art Direction: Mat Maitland
Direction: Smith & Read / Mat Maitland
Animation: Natalia Stuyk
Production: Alastair Coe at Big Active
Music: ‘Mädchen Amick’ by Buffalo Tide

Bowie 66

David Bowie compie 66 anni e li festeggia rilanciando il suo sito e riempiendolo di video che vanno dal 1972 ad oggi ripercorrendo 40 anni di intelligente carriera.

Inoltre, dopo 10 anni di assenza, sta preparando il nuovo album The Next Day, atteso per Marzo, da cui è tratto il brano “Where Are We Now?”, lanciato con questo video diretto da Tony Oursler, in cui il viso di Bowie, insieme a quello di una donna sconosciuta, spunta da uno schermo su cui scorrono immagini in bianco/nero di una Berlino anni ’70, quasi da film di Wim Wenders.

Ricordi e nostalgia, anche nel testo:

Prossimo alla fine
Seduto alla discoteca Dschungel
A Nurnberger Strasse
Un uomo perduto nel tempo
Vicino alla KaDeWe
Semplicemente prossimo alla fine

Dove ci troviamo adesso?
Dove ci troviamo adesso?
Nel momento in cui sai
Tu sai
Tu sai

Finché ci sarà il sole
Finché ci sarà la pioggia
Finché ci sarà il fuoco
Finché ci sarò io
Finché ci sarai tu

Gran classe, come (quasi) sempre…

Fondere due canzoni

Whole Lotta Love – Helter Skelter, by Soundhog

John Barleycorn must die – Ramble On, by Soundhog

Bob Dylan is 71

Tre giorni fa, il 24, Dylan ha compiuto 71 anni.

Che da quando lo ascoltavo da giovane, le cose siano cambiate non c’è dubbio. Nel 1965 “The Times they are a-changin” veniva urlata per la strada, mentre, nel video qui sotto, del Febbraio 2010, Dylan la canta alla Casa Bianca. Quest’anno Obama gli consegnerà la Presidential Medals of Freedom, la più alta onorificenza civile della nazione. Come aveva predetto John Cage, “tutto quello che facciamo, prima o poi finirà per diventare melodico”.

Nel frattempo, in una lunga intervista a 60 Minutes, Bob Dylan ha detto qualcosa che può essere interpretato come una ammissione di aver venduto l’anima al diavolo. Ancora più sorprendentemente, un sacco di gente gli ha creduto. È incredibile come la gente sia pronta a credere a uno che in un film dichiarava di chiamarsi Alias (Pat Garrett & Billy the Kid).

Comunque mi piace sempre Dylan. Mi sembra un sopravvissuto, uno dei più onesti di tutta la scena pop. Il che è tutto dire.

Pink Floyd a Pompei

Lo storico film del 1972 è ormai disponibile su You Tube

Music history as a London tube map

100 anni di musica mappati nello stile della metro di Londra. Opinabile quanto divertente.

Cliccare qui per scaricare il pdf.

Robert Zimmerman compie 70 anni…

… Bob Dylan invece non ha età.

Aidoru

Canta, danza (o perlomeno si muove a tempo), è il più recente idolo dei teenager giapponesi ed è virtuale. Hatsune Miko (初音ミク) ha un vero pubblico, una vera band, ma è, apparentemente, un ologramma. In realtà si tratta di una proiezione 2D su uno schermo trasparente.

La sua voce è sintetizzata tramite il software Vocaloid Yamaha. In effetti Hatsune Miko è il secondo personaggio vocale completo messo a punto per Vocaloid (il primo rilasciato in Giappone) nel 2007 e il suo nome unisce primo (初, hatsu), suono (音, ne) e futuro (Miku ミク). La voce è quella dell’attrice Fujita Saki (藤田 咲) che si è prestata a registrare centinaia di fonemi giapponesi con una intonazione controllata.

Il fenomeno di Hatsune Miko non è il primo di questo genere. Segue la grande notorietà di Kyoko Date (DK-96) che è stato il primo net-idol, nel 1997. Il fenomeno delle star in Giappone risale ai primi anni ’70 e riflette il boom giapponese della cantante francese Sylvie Vartan con il film Cherchez l’idole (1963, in Giappone nel 1964).

Lo sviluppo degli idoli giapponesi è molto interessante.

Negli anni ’70 gli idoli avevano un’aura quasi mistica. Soltanto la parte pubblica della loro vita era nota ed era sempre perfetta e sapientemente orchestrata e la loro personalità visibile era falsa e accuratamente costruita. Nulla si sapeva della loro vita privata, se non alcune notizie essenziali (tipo, un matrimonio) e quello che traspariva del loro privato era altrettanto costruito. Le loro condizioni di lavoro erano pessime: erano strettamente controllati e guadagnavano decisamente poco, perché la maggior parte del denaro andava nelle tasche dei loro produttori, ossia quelli che li creavano.

Negli anni ’80 la condizione degli idoli cominciò ad avvicinarsi a quella della gente comune, in parte perché le condizioni di vita in Giappone erano notevolmente migliorate, ma anche perché il controllo si era leggermente allentato e si permetteva loro di mostrare un po’ della loro personalità. Le major, infatti, iniziavano a sperimentare la competizione fra varie star e quindi alcune differenze dovevano emergere. Un po’ come Beatles e Rolling Stones: questi ultimi apparivano un po’ più selvaggi dei primi e probabilmente lo erano davvero.
Iniziarono anche a guadagnare un po’ di più, ma sempre poco, se paragonato al giro d’affari che creavano.

Gli anni ’90 videro molti cambiamenti. Invece di essere dipinti come delle persone superiori, gli idoli divennero gente comune che aveva solo qualcosa in più (un X-Factor?). In qualche situazione potevano anche essere tristi, un po’ fuori forma e ammettere di aspettare i saldi per comprare i vestiti. Nello stesso tempo, il loro ciclo di vita come idoli divenne più rapido.
Ma il grande salto avvenne quando, vedendo il grande successo dei personaggi di anime e videogames (es. Lara Croft), le major iniziarono a lavorare su personaggi virtuali. Le star virtuali non devono essere pagate, ma questa considerazione è secondaria perché al loro posto bisogna pagare dei tecnici di animazione che possono costare anche di più. Il punto è che un personaggio virtuale è totalmente controllabile e non pone problemi.