La città delle tenebre

HakNam, la città delle tenebre, l’antica città murata di Kowloon è stata finalmente demolita nel 1983. Si trattava di un impressionante agglomerato urbano di 200 x 100 metri di solido cemento, con costruzioni alte 10, 12 e in qualche caso anche 14 piani, che era arrivato ad ospitare fino a 50000 persone.

Nato ai tempi della dinastia Song (960-1279) come avamposto per la difesa del sud, l’insediamento di Kowloon è ben più vasto della città murata. Il suo nome, Kau-lung (Traditional Chinese: 九龍, Simplified Chinese: 九龙) significa “nove dragoni” e deriva dagli otto picchi che la circondano (il nono era l’imperatore medesimo).
Quella che sarebbe diventata la città murata (o fortificata) era stata costruita come fortino a metà dell’800, ai tempi dell’annessione inglese dell’isola di Hong Kong con il trattato di Nanchino (1842).

Nel 1898, poi, l’enclave inglese di Hong Kong venne estesa ai cosiddetti Nuovi Territori sul continente, ceduti per 99 anni, escludendo, comunque, la città fortificata, che allora ospitava 700 persone. La Convenzione per l’estensione dei territori di Hong Kong stabiliva che la Cina avrebbe potuto tenervi truppe, purché non interferissero con il potere britannico sulla penisola.
Con il rispetto della parola data che distinse l’Impero Britannico, l’esercito inglese attaccò il forte solo un anno dopo, per trovarlo, però, completamente deserto.

Da quel momento, la questione della sovranità sulla città fortificata rappresentò sempre un buco nero diplomatico. Gli inglesi se ne disinteressarono, usandola al massimo come un luogo turistico in cui respirare un po’ di aria della vecchia Cina, mentre la popolazione ricominciò a crescere fino alla IIa guerra mondiale, quando i giapponesi occuparono Hong Kong e sfrattarono gli abitanti.
Dalla fine della guerra in poi la popolazione cinese riprese possesso della città che divenne il rifugio di migliaia di profughi in fuga di fronte alla rivoluzione comunista e di molti criminali comuni.

Il vero boom, però, si ebbe dal 1974 in poi, dopo che una spedizione di 3000 poliziotti fece piazza pulita dei componenti di una Triade che aveva stabilito la propria sovranità su quel luogo.
Libera dalla malavita organizzata e priva di qualsiasi controllo statale, Kowloon ricominciò a crescere come un’entità biologica. Le costruzioni si svilupparono l’una sull’altra senza alcun piano e vennero eseguite anche moltissime modifiche praticamente senza nessun intervento da parte di architetti o ingegneri. Migliaia di metri cubi vennero semplicemente assemblati in un patchwork monolitico, riducendo gradualmente gli spazi fino ad arrivare a situazioni paradossali in cui finestre si aprono letteralmente sul muro o sulle finestre del vicino.

In breve tempo, le strade come noi le conosciamo scomparvero dalla città murata. Gli unici spazi fra gli edifici si ridussero a stretti vicoli in cui raramente riusciva ad filtrare un raggio di sole.
Nel 1987 Kowloon raggiunse l’incredibile cifra di circa 50000 abitanti stipati in 0.026 km2 che corrisponde all’iperbolica densità di 1500000 esseri umani per km2.

Ciò nonostante, l’idea che la città delle tenebre fosse solo un luogo ad elevato tasso di criminalità è totalmente errata. Era sicuramente un luogo di illegalità diffusa: case da gioco, droga, prostituzione erano comuni a Kowloon, più o meno al livello di una qualsiasi metropoli. Ma la cosa notevole è che un luogo del genere sia riuscito ad esistere per tanto tempo privo di qualsiasi intervento statale.
La corrente elettrica veniva semplicemente rubata alla rete di Hong Kong, con un intrico di cavi e impianti autogestiti per distribuirla e soltanto alla fine degli anni ’70, dopo un incendio, le autorità intervennero installando delle linee quasi regolari. Per molti anni gli abitanti si procurarono l’acqua scavando una settantina di pozzi entro il perimetro della città e solo negli ultimi 20 anni il governo aveva installato delle tubature che portavano acqua pulita e controllata fino ai limiti della zona.

In realtà, la città murata è stata per molto tempo una TAZ, una zona temporaneamente autonoma, sganciata dai poteri locali e auto-organizzata in cui fiorivano una serie di attività come negozi, piccole fabbriche, studi medici e perfino scuole e asili nido, tutti privi di alcun permesso, ma necessari e professionali. C’erano anche molti ristoranti, un tempio e uno “yamen”, un ufficio in cui un saggio amministrava la giustizia e dirimeva le controversie, relitto di un lontano passato cinese.

E così la vita andava avanti, la gente si muoveva all’interno della città murata svolgendo servizi e raggiungendo il posto di lavoro, mentre i bambini, dopo la scuola, venivano portati a godere di un po’ di sole nei giardini sui tetti.

Il punto è che il tutto era organizzato e sostenuto autonomamente dalla cittadinanza a dispetto delle diversità e dei conflitti che in un luogo a così alta densità abitativa potevano facilmente esplodere, dimostrando così un incredibile spirito di adattamento e di tolleranza.

Non sono moltissimi i siti che ricordano ancora la città delle tenebre. Come tutte le TAZ, il potere, di qualsiasi tipo esso sia, cerca di lasciar sfumare il suo ricordo.
Oltre a wikipedia, c’è  il sito di una spedizione giapponese, ultima a visitarla dopo lo sgombero e prima della demolizione.
Altre testimonianze su YouTube qui e qui.

Shamisen

Lo shamisen (nome antico sangen [tre corde]) è uno strumento a corda della famiglia del liuto con una piccola cassa armonica di forma approssimativamente quadrata formata da una fascia di legno ricoperta da entrambi i lati di pelle di animale. Il manico è lungo e sottile e penetra attraverso tutta la lunghezza della cassa fuoriuscendo dalla parte opposta; su questo spuntone del manico alla base della cassa sono legate le tre corde di seta, che passano poi su un ponticello appoggiato sulla parte inferiore della cassa armonica e su un secondo ponticello fisso alla sommità del manico (capotasto), per finire sui tre lunghi piroli di accordatura. Il manico è privo di tasti (ponticelli) e il cavigliere dei piroli (la sede dei piroli) è curvato all’indietro rispetto alla direzione del manico. La lunghezza totale dello strumento è 95 – 100 cm.
In generale la corda più bassa dello shamisen non è appoggiata sul capotasto ma su una tacca posta di fianco ad esso e passa sopra una protuberanza della superficie del manico (sawari no yama) contro cui urta quando è in vibrazione. Questo dispositivo serve a produrre un suono ronzante (chiamato sawari) che è una importante caratteristica timbrica dello strumento e che viene emesso quando la corda è lasciata “vuota”, sia che essa venga suonata direttamente, sia (in misura minore) quando vibra per risonanza con le altre corde.
Benché sia stato introdotto in Giappone in epoca relativamente tarda, lo shamisen ebbe un successo immediato ed una enorme diffusione sia nella musica classica che in quella popolare, tanto che oggi lo si può forse considerare come lo strumento più importante della musica giapponese. Tra i principali generi in cui esso svolge una parte di primo piano si possono citare il jôruri (musica del teatro classico dei burattini), il nagauta (musica del teatro kabuki) ed il jiuta (musica vocale da camera).

Lo shamisen viene suonato con un grosso plettro di legno chiamato bachi; il suonatore siede in posizione seiza e tiene lo strumento in diagonale, appoggiandone la cassa sulla coscia destra.

Le tre corde possono essere accordate in tre modi:

  • 4a e 5a (es. DO – FA – DO)
  • 5a e 4a (es. DO – SOL – DO)
  • 4a e 4a (es. DO – FA – SIb)

Il brano che ascoltiamo è chiamato Tsugaru jongara-bushi [Canto jongara di Tsugaru]. Jongara è uno stile e Tsugaru è la regione all’estremo nord di Honshu (l’isola principale dell’arcipelago giapponese) e corrisponde all’odierna prefettura di Aomori.
Si tratta di musica tradizionale, ma in Asia non c’è distanza fra musica tradizionale e repertorio classico (per es., secondo la visione asiatica, i valzer di Strauss sarebbero musica tradizionale austriaca, ma anche gli autori molto caratterizzati geograficamente, come i compositori russi, alcuni spagnoli e altri ancora, verrebbero inseriti nella musica tradizionale).
In questo genere musicale si lascia spazio anche all’improvvisazione, ma questa esecuzione è abbastanza misurata.
Questo video mostra bene la tecnica esecutiva.
L’esecutore è Yu Takahashi, in concerto presso la Chiesa di Sant’Ambrogio, Milano, 16 febbraio 2012.

Koto

Kazue Sawai esegue un brano al koto.
Questo strumento è un cordofono appartenente alla famiglia della cetra introdotto dalla Cina in Giappone durante il periodo Nara (710 – 794 d.C.).
All’inizio il koto venne usato per lungo tempo solamente presso la corte imperiale. Questo stato di cose cambiò nel XVII secolo soprattutto ad opera di Yatsuhashi Kengyô (1614-1684) che sì applicò a rendere il koto maggiormente accessibile presso la popolazione. Ideò una nuova accordatura, detta hirajoshi, che divenne una delle più utilizzate e creò composizioni divenute dei classici della letteratura per questo strumento come Rokudan e Midare, che è il brano che ascoltiamo qui.
Si tratta quindi di un esempio di musica classica giapponese del ‘600.
È interessante osservare come la musica classica giapponese sia altamente formalizzata. Questo brano, per esempio, appartiene alla categoria dei danmono che è una forma classica di brani per koto solamente strumentali, composti da diverse sezioni chiamate dan [lett. “gradino, ripiano, livello”]. Nella forma più tradizionale di danmono, ogni dan è formato da 104 haku [pulsazione, battito, unità fondamentale di misura del tempo] e costituisce una variazione su un unico tema.
Questo brano, però, fa eccezione perché i vari dan non sono formati dallo stesso numero di beat e proprio per questo si intitola Midare [乱 lett. “confusione, caos”].
Ricordate, inoltre, che l’accordatura giapponese non è esattamente temperata.

Per quanto riguarda il koto, il corpo dello strumento è costituito da una cassa armonica, lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, costruita, in genere, con legname di Paulownia (Paulownia Tomentosa o kiri, in giapponese). Su di essa corrono tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa tensione, ognuna delle quali poggia su di un ponticello mobile (ji, 柱).
Questo fatto va sottolineato perché è un sistema completamente diverso da quello occidentale in cui si usano corde di vario diametro e tensione.
Qui le corde sono tutte uguali e tirate alla stessa tensione. Per ottenere note diverse, quindi, l’unico sistema è variare la lunghezza della corda. Infatti ognuna di esse ha il proprio ponte che viene piazzato in punti diversi.
Le corde, poi, sono pizzicate con la destra, mentre la sinistra non suona, ma crea abbellimenti sotto forma di vibrati e di veloci glissati, sia nell’attacco che in coda al suono, ottenuti premendo la parte della corda che sta oltre il ponte. Naturalmente il fatto che tutte le corde abbiano la stessa tensione facilita questo compito perché così una data pressione genera un glissato della medesima estensione su ogni corda, cosa che non avverrebbe se la tensione fosse diversa.
L’esecutore si pone in ginocchio o seduto di fronte allo strumento e pizzica le corde tramite l’ausilio di tre plettri (tsume) fissati al pollice, all’indice ed al medio della mano destra.
Lo spartito per koto si presenta generalmente sotto forma di intavolatura che si legge dall’alto in basso e da destra verso sinistra (il senso di lettura normale anche nel giappone moderno: i libri sono impaginati così, sebbene ormai sia diffusa anche la scrittura orizzontale).
Il koto viene paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Per tale motivo, le diverse parti di cui esso è formato assumono dei nomi che ricordano quelle del mitico animale, come ad esempio:

  • Ryuko (schiena del drago): è la parte superiore della cassa armonica,
  • Ryuto e ryubi (testa e coda del drago): sono le estremità dello strumento.

Kazue Sawai è considerata uno dei massimi virtuosi viventi di questo strumento.

Sawako

tiny tiny press image
Sawako is a sound sculptor and timeline-based artist who understands the value of dynamics and the power of silence. Beginning in video art, Sawako shifted her focus from the video camera to sound. Once through the processor named Sawako, fragments in everyday life – field recordings, instruments, voice and electronic sounds – float in space vividly with a digital yet organic texture. Her unique sonic world has been called “post romantic sound” by Boston’s Weekly Dig.

Opere buone

ANSA – Tokyo, 14/07/2007

Un misterioso personaggio da circa un mese sperpera il suo patrimonio riempiendo di banconote i bagni pubblici in Giappone. Il denaro finora ritrovato dagli avventori nelle toilette pubbliche e’ di decine di migliaia di euro. Il ‘cerimoniale’ osservato dall’uomo misterioso e’ sempre lo stesso: una banconota da 10.000 yen (60 euro) e’ chiusa in una busta accompagnata dalla scritta ‘opere buone’. All’interno oltre al denaro c’e’ un messaggio che esorta a compiere buone azioni.

L’isola di Hashima

 

Hashima (Gunkanjima) | Travel Japan - Japan National Tourism Organization  (Official Site)

L’isola di Hashima (端島 trad. qualcosa come isola di confine o isola del bordo), chiamata anche Gunkanjima (軍艦島 trad. isola nave da guerra, per le coste cementate e la forma), è una delle 500+ isolette disabitate nei pressi di Nagasaki, nella parte sud.ovest del Giappone.
Il fatto è che, invece, fino al 1974, era uno dei luoghi a più alta densità abitativa del globo. L’isola fu acquistata dalla Mitsubishi nel 1890, con l’idea di scavarvi una miniera di carbone.
Nel 1916 vennero costruiti gli alloggi per i lavoratori e la miniera venne sfruttata fino al 1974. Nel 1959 la popolazione raggiunse i 5000 abitanti circa, cioè 835 abitanti per ettaro, che equivalgono alla pazzesca densità di 83500 ab. per Km2 (1 ettaro = 0.01 Km2; per confronto, la regione italiana con la densità maggiore è la Campania: 421 ab./Km2).
Il verde era quasi completamente scomparso dall’isola, tanto che qui venne girato il film Midori Naki Shima (The Greenless Island, 1949). Un altro famoso (in Giappone) film ambientato in Gunkanjima è il recente seguito di Battle Royale: Battle Royale II, The Requiem (2003).
Negli anni ’60, poi, iniziò il declino del carbone e l’isola venne gradualmente abbandonata, fino alla sua chiusura definitiva nel 1974 (chiusura anche a qualsiasi tipo di visita perché pericolosa: io l’ho visitata a suo tempo approfittando del caos creato da una manifestazione di Greenpeace).
Stranamente, non è stata fatta nessuna riconversione. Gli edifici sono stati abbandonati all’usura del tempo e sono ormai dei ruderi spettrali che stanno assumendo un valore di archeologia industriale al punto che il governo pensa di riaprirla (una decisione era attesa per Aprile, ma non ne so niente).
Trovate delle belle foto qui

Tibetan Bells

Maybe someone remember this 1973 vinyl (now out of print) called Tibetan Bells by Henry Wolff and Nancy Hennings.
Not so deep from a composer’s point of view but beautiful sounds.

Non so se qualcuno di voi ricorda questo vinile del 1973 ormai fuori catalogo, fatto tutto con campane tibetane e firmato Henry Wolff and Nancy Hennings.
Compositivamente debole, ma gran suono.

from Henry Wolff and Nancy Hennings – Tibetan Bells (1973)

Yuki

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Takemitsu’s recent works have been marked by the use of traditional Japanese instruments as in the case of Eclypse for the Shakuhachi and Koto, or the music in the film, Kwaidan (Ghost Stories), which includes extremely original concepts. Here again, the motive of composition seems to seek through these instruments special effects which otherwise could not be obtained. And it is true that he has until now been so successful that one could not expect more. It seems as if it were aimed at producing an interminable dynamic drama from the succession of the momentary sounds from the hand and the mouth of the musician. This is the quality very akin to that which realizes infinite freedom at the very moment of heightened tension as in the case of Japanese calligraphy and the tea ceremony.

Asterism

Born in Tokyo, Takemitsu first became interested in western classical music around the time of World War II. He heard western music on American military radio while recuperating from a long illness. He also listened to jazz from his father’s ample collection.
Takemitsu was largely self-taught in music. He was greatly influenced by French music, and in particular that of Claude Debussy and Olivier Messiaen. In 1951 he founded the Jikken Kobo, a group which introduced many contemporary western composers to Japanese audiences.
Takemitsu at first had little interest in traditional Japanese music, but later incorporated Japanese instruments such as the shakuhachi (a kind of bamboo flute) into the orchestra. November Steps (1967), a work for shakuhachi and biwa (a kind of Japanese lute) solo and orchestra was the first piece to combine instruments from east and west. In an Autumn Garden (1973-79) is written for the kind of orchestra that would have played gagaku (traditional Japanese court music). Works such as Eclipse, (1966) for shakuhachi and biwa, Voyage (1973), for three biwas should also been mentioned as works that are decidedly derived from traditional genres.
Takemitsu first came to wide attention when his Requiem for string orchestra (1957) was accidentally heard and praised by Igor Stravinsky in 1959. (Some Japanese people wanted Igor Stravinsky to hear some tape recorded music by Japanese composers and put in the wrong side of the tape; when they tried to take it out, Stravinsky didn’t let them.) Stravinsky went on to champion Takemitsu’s work.
During his career, Takemitsu composed music for motion pictures, including scores for directors Hiroshi Teshigahara, Akira Kurosawa, Masaki Kobayashi, and Shohei Imamura.
Takemitsu died in Tokyo on February 20, 1996

Commissioned in 1968 by RCA Records, this work is for piano and orchestra with an expanded percussion section with unusual methods of articulation: the spine of a comb is run across a suspended cymbal, a double-bass bow used on three suspended cymbals, and so on. All three definitions of the title constitute the poetic meaning of this music – a group of stars, a constellation; crystallized minerals showing a starlike luminous figure in transmitted or reflected light; and the three asterisks placed before a passage to direct attention to it. The music is characterised by lovely crystalline textures from glockenspiel, harp, metallic percussion and the piano. Impressionistic chords from the high strings, and Messiaen-like brass chords provide celestial imagery. Sliding tones from plucked strings and lower brass suggest more earthiness. A brief solo statement from the piano is followed by breaking sounds (light bells, ratchets, rattles) from the percussion suggest the punctuation nature of the title. Toward the end, the music enters a quasi-random chaotic crescendo of uncoordinated cycling motifs and sizzling cymbals and gongs. Suddenly, the sound is suspended and a quiet transparent texture emerges, then silence, and a single final note from the piano. A lovely, brief, poetic vision.

Download Takemitsu music from AvantGarde Project 24.

Toru Takemitsu – Asterism (1968), per piano e orchestra
Toronto Symphony Orchestra – Seiji Ozawa (conductor) – Yuji Takahashi (piano)

Luna Nuova

Luna nuova: l’anno del maiale di fuoco (detto anche maiale rosso, il 4704) inizia ufficialmente oggi. Secondo il calendario lunare cinese, infatti, l’anno inizia alla seconda luna dopo il solstizio di inverno.

The Chinese New Year starts at the second Moon after the winter solstice, so today, February 18, 2007 is the first day of the Chinese new year 4704 (year of the red pig).